“Questo film narra la storia di un maiale, soprannominato Porco Rosso, che si batte contro i pirati del cielo a rischio del suo onore, della sua donna e dei suoi beni, ambientata nel Mar Mediterraneo, all’epoca degli idrovolanti.”
È una macchina da scrivere invisibile a recitare l’incipit di Porco Rosso, la sesta e forse più travagliata epopea nata dal genio di Miyazaki Hayao nel lontano 1992 e ora planata nuovamente nelle sale cinematografiche italiane. Di Italia, in effetti, si parla parecchio – e non solo: ricordiamo che il regista, all’epoca, era reduce da ben due pellicole quasi interamente basate su quell’effetto nostalgia che forgerà la sua opera nei giorni a venire. Nostalgia di che cosa? La risposta è semplice: di un’ipotesi, o meglio, di un Novecento al condizionale in cui magia e tecnica potrebbero convivere civilmente, ma scelgono con caparbia ottusità di annientarsi a vicenda.
Novecentesche sono infatti le metropoli minerarie di Laputa – Castello nel cielo (1986), sospeso fra le visioni eteree di Jonathan Swift (Laputa è il nome di una città volante in cui il mitico Gulliver s’imbatte nel suo terzo viaggio) ma pur sempre incastonato nel Galles che l’autore visitò due anni prima, al tempo dei grandi scioperi e delle grandi utopie destinate al tracollo. Novecentesca è la parabola di Kiki – Consegne a domicilio (1989), ritratto di una strega adolescente che non riesce più a volare dopo aver intravisto un dirigibile. Novecentesco, infine, è l’irreale e cristallino Nord-Est europeo in cui si libra Porco rosso, ex aviatore trasformatosi in maiale al termine della Grande Guerra.
Il racconto non è un racconto, ma il bozzetto di un paesaggio storico ancora palpitante nella memoria collettiva: protagonista assoluto è, l’abbiamo già detto, Porco – ovvero, il fu esistito Margo Pagot, pilota dell’Aeronautica Italiana nei ruggenti e bruni (in tutti i sensi) anni Venti. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente intenzionale: chiunque abbia un minimo di confidenza con Miyazaki conosce la sua passione per i dispositivi aerei, per il sogno secolare di sconfiggere le innumerevoli forze che ci tengono vincolati a terra – la gravità, ad esempio, altresì detta “assoggettamento a leggi fisiche e/o sociali in grado di rimuovere l’individuo da sé stesso”. Ma torniamo al nostro affabile suino in impermeabile e panama grigio.
Marco Pagot è un maiale: l’intero film si fonda sulla bipolare e disturbante ambiguità di tale espressione. Prima è doveroso precisare che questo animale buffo e insieme ripugnante si associa, nell’iconografia buddhista, all’ignoranza premeditata ed esercitata con una certa cieca ostinazione, all’autoinganno che porta all’autoisolamento, alla perdita del legame emotivo che intercorre fra uomo e mondo. Questa chiave di lettura è utile solo in parte, a maggior ragione se teniamo conto del divario culturale (o, per essere più precisi, filologico) che intercorre fra Oriente e Occidente.
Che Marco viva ai margini per scelta e per virtù è un dato di fatto: abbandonato l’esercito dopo l’ingombrante trauma del 1914-18, l’ex soldato diventa cacciatore di taglie (incredibile ma vero, Miyazaki è un appassionato cultore di Western) e inizia a dar filo da torcere ai cosiddetti pirati dell’aria. Questi ultimi sono uno sciame di allegri cialtroni, vecchie conoscenze che il regista pone sotto il medesimo cielo: in particolare il leader della banda Mamma Aiuto, il cui nome viene dal fu idrovolante CANT Z.501, è l’amorevole trasposizione del grottesco Bluto di Popeye – un personaggio che qui riacquista la sua dignità. Come accade in Laputa, i corsari e i fuorilegge sono guardati con affetto e benevolenza: il loro crimine pare essere quello di avere, per l’appunto, sfidato la forza di attrazione terrestre – e dunque, di aver preferito la magia alla fisica. Fra i simpatici antagonisti spicca perfino un americano: si tratta dell’asso Donald Curtis, goffa parodia dell’eroe hollywoodiano che non perde mai e omaggio dell’autore ai memorabili aerei Curtiss Falcon. Come abbiamo già anticipato, il racconto non è un racconto, ma una serie di avventure felici e di oneste scazzottate tra banditi: Marco e i suoi avversari giocano con disperata testardaggine, forse nel tentativo di… rimanere in quota.
Giù in superficie, infatti, sta succedendo qualcosa di sinistro – qualcosa che Miyazaki ci mostra con una certa circospezione o, potremmo ben affermare, timore: l’Italia che circonda le isole franche dell’Adriatico su cui volteggiano i nostri piloti è prigioniera del suo spazio-tempo. E questo spaziotempo ha un nome: 1929. Ovunque si parla di recessione. Ovunque si parla di dittatura, ovviamente senza parlare di dittatura. Il fascismo emerge nelle interminabili parate dei carri armati, nei cinema in cui i maiali vengono sconfitti dai topi, nei verdi (seppur, come ben sappiamo, neri) stendardi sfarfallanti ai margini delle strade. È già lo scenario del Castello errante di Howl, ma ancora non ne siamo consapevoli. Miyazaki rifiuta di sprecare inchiostro per l’infamia e la grettezza umane: per questo, l’unico fascista a proferir parola sarà il maggiore della Regia Aeronautica Arturo Ferrarin, pioniere della prima tratta Roma-Tokyo e qui fedele alleato del protagonista. Pur rifiutando una presa di posizione esplicita che farebbe di lui un cosiddetto porco, egli aiuterà il suo compagno a sfuggire alle autorità, rischiando la vita.
Nel frattempo, i maiali di ogni risma s’accalcano all’Hotel Adriano, un’oasi felice gestita dalla Chanteuse Gina, ricordo d’infanzia e grande amore di Marco. Qui s’intona Le temps des cerises, l’inno che Jean-Baptiste Clement dedicò alle vittime della Settimana di Sangue in cui si estinse la Comune parigina del 1871. Porco rosso, ovvero: come esercitare il libero arbitrio attraverso la propria emancipazione da una razza umana divenuta ormai ferina. Il famoso motto “meglio maiale che fascista” sarebbe da interpretare in questo senso. La pellicola ragiona al contrario perché al contrario scorre la logica del totalitarismo: in poche parole, uomini e animali si scambiano di posto. E lo fanno, in tal caso, nel 1918, anno in cui Marco Pagot perse i suoi amici: durante una battaglia contro gli austriaci, il protagonista entra in una sorta di trance e assiste all’ascensione dei caduti. Sopra alle nuvole si libra una Via Lattea di fantasmi, una costellazione di muti spettri intenti a volare verso l’ultimo scalo dell’esistenza: la morte. Pur rimanendo in questa sorta di limbo celeste, Marco riesce a mettersi in salvo, e decide di farsi maiale. L’episodio trae ispirazione dalla celebre novella di Roal Dahl They shall not grow old, ma Miyazaki ne riscrive la morale in senso prettamente nipponico: non abbiamo il diritto di sopravvivere alla dipartita dei nostri cari. È un fatto disonorevole, ed ecco perché Pagot “si batte per il suo onore” – un onore individualista, rosso e indomabile come un anziano idrovolante color cremisi.
Ritorniamo, infine, alla nostalgia – l’incurabile male da cui sarà affetto il futuro Howl: la nostalgia di Porco rosso sta tutta nella turbolenta e lussureggiante estate 1929, l’antinferno per antonomasia. Non è un caso che l’albergo Adriano somigli così tanto all’Isola dei morti messa su tela, a fine Ottocento, niente meno che dal pittore svizzero Arnold Böcklin. L’universo di Marco (e quello del suo creatore) è crepuscolare, precario, inquieto, e ha perso gran parte dei suoi abitanti umani. Lo stesso protagonista si toglierà la maschera soltanto due volte – la prima, durante una notte in cui egli rievoca la sua esperienza premorte; la seconda, al bacio della giovane aiutante Fio, una “piccina” tutta d’un pezzo (come solo le donne di Miyazaki sanno essere) davanti alla quale verrebbe quasi da pensare “che l’umanità non sia poi da buttar via”. Lo scrittore tedesco Karl Kraus diceva: “L’ascensione di una mongolfiera è una preghiera, quella di un aeroplano un pericolo per chi non vi partecipa”. Miyazaki, con la sua nostalgia del se e del ma, rende l’aeroplano una preghiera.
In sala dal 1 agosto
Cast & Credits
Porco Rosso – Regia: Hayao Miyazaki; sceneggiatura: Hayao Miyazaki; fotografia: Atsushi Okui; montaggio: Hayao Miyazaki; doppiatori italiani: Massimo Corvo (Marco Pagot/Porco Rosso), Fabrizio Pucci (Donald Curtis), Roberta Pellini (madame Gina), Joy Saltarelli (Fio Piccolo), Paolo Buglioni (boss di “Mamma aiuto”), Massimo De Ambrosis (Ferrarin), Armando Bandini (signor Piccolo), Roberto Draghetti (boss francese), Gerolamo Alchieri (boss siciliano), Carlo Reali (boss austroungarico), Paolo Marchese (membro di “Mamma aiuto” con maglia rossa), Luigi Ferraro (fuciliere di “Mamma aiuto”), Elena Magoia (nonna), Franco Mannella (giornalista), Bruno Conti (barista); produzione: Studio Ghibli; origine: Giappone 1992; durata: 92’; distribuzione: Lucky Red.