Nessuno sa se Rifkin’s Festival sarà o non sarà l’ultimo film di Woody Allen. Stando a quanto afferma lo stesso Woody, esacerbato dalle controversie esplose dopo che il MeToo e uno sciagurato docudrama prodotto dalla HBO hanno riaperto a distanza di quasi trent’anni il caso delle supposte molestie alla figlia adottiva della sua compagna di allora, Mia Farrow, l’amarezza di ritrovarsi in patria rinnegato e reietto come un reprobo potrebbe indurlo a chiudersi in uno sprezzante e definitivo silenzio creativo, vista anche l’estrema difficoltà di reperire i capitali necessari per mettere in piedi una nuova produzione cinematografica ora che ha contro mezza Hollywood, e non solo.
A 85 anni sono cose che non si digeriscono con leggerezza, e più che legittima sarebbe la voglia di spedire tutti al diavolo. Per il momento, dunque, Rifkin’s Festival è l’ultimo film di un cineasta prolifico e venerando, voce tra le più autorevoli, significative e brillanti della contemporanea cultura statunitense, patrimonio di una umanità rincretinita a tal punto da spicconarsi da sola le proprie radici e i propri punti fermi, e costretto a cercare capitali esteri per realizzare altri film. Per fortuna, stavolta li ha trovati in Spagna (MediaPro Studio) e in Italia (Wildside) ed è riuscito a mettere insieme sul set un congruo manipolo di star internazionali, da Gina Gershon a Louis Garrel e Sergi Lopez.
Nulla, sia chiaro, delle nefandezze piovutegli addosso negli ultimi anni con rinnovato e ahimè più efficace accanimento traspare in questa sua ultima opera lieve fino alla rarefazione, ma è certo impossibile non scorgervi gli estremi di un’opera terminale, compendiale, definitiva, in una parola: testamentaria.
Rifkin’s Festival si svolge interamente nello studio di uno psicanalista, dove il film ha inizio: un omino attempato e mansueto, Mort Riflin (Wallace Shawn) racconta al proprio strizzacervelli la sua breve vacanza europea insieme a sua moglie Sue (Gina Gershon) nell’occasione di un festival cinematografico dove lei lavora come ufficio stampa di un rampante regista francese Philippe (Louis Garrel) molto trendy e molto cool; tutto il film non è dunque che un lungo flashback. È però nella seduta psicanalitica, dove si torna al termine del film, che se ne troverà la chiave di lettura, il messaggio nella bottiglia che Woody Allen affida, nonostante tutto, a quel mondo ingrato che lo rifiuta e vorrebbe cancellarlo, rimuoverlo, obliterarlo. Altrettanto suggestiva è l’ipotesi, adombrata come al solito secondo il metodo alleniano, di prevedere che lo spettatore possa tranquillamente non avvedersene senza tuttavia compromettere la comprensione e la godibilità dell’opera, che il cinema stesso sia un flashback, limitato entro i confini della durata dei sogni. L’ex docente di storia del cinema Mort Rifkin sogna moltissimo, in questo film: come tutti noi, anch’egli rivive nel sonno momenti di vita ‘alternativa’ a quella reale, attribuendo a persone e cose le sembianze dei nostri amori e delle nostre paure.
Rifkin ama il cinema. Sia chiaro: non ‘andare al cinema’, ma il cinema in sé, che egli considera tra le massime espressioni della sensibilità e della creatività umana. Il cinema è sempre stato il grande amore della sua vita. Se gli altri, specialmente i suoi connazionali, ci vedono esclusivamente intrattenimento, mondanità e business, per lui il cinema è, al pari dell’arte e della poesia, il mezzo indispensabile per provare a rispondere ai grandi interrogativi che, inevasi, da sempre alimentano le nostre angosce esistenziali. Idealista, disadattato, timido, imbranato e ipocondriaco, fin da giovane una frana con le ragazze, Rifkin, ormai in pensione, è il ritratto del cinefilo da anziano, che si ritrova a tirare il bilancio di una vita vissuta soltanto a metà, perché l’altra metà ha preferito guardarla sugli schermi del cinema.
Per questo la notte sogna di rivivere le sequenze più amate dei capolavori senza tempo e rigorosamente in bianco e nero del cinema d’antan: quel cinema che da ragazzo gli ha schiuso le porte di altri mondi e di altre culture, e che parla francese, italiano, svedese, spagnolo, giapponese… Mentre gli altri sfottono la sua fissazione per i sottotitoli, Rifkin sa che la Verità, con la maiuscola, si nasconde nei fotogrammi dei grandi Maestri del cinema europeo del secondo dopoguerra, i cui personaggi abitano i suoi sogni miracolosamente immedesimandosi come simulacri platonici nelle figure familiari di amici, parenti, colleghi, gli amori di gioventù, addirittura la mamma e il papà… Ma anche al cinema, come nella vita reale, la Verità, con la maiuscola, rimane inafferrabile, e chi nasce per ‘guardare’ è condannato allo sguardo e al sogno per l’eternità.
Amplificato dalla dimensione vacanziera del film, che si svolge durante un’edizione del Festival cinematografico di San Sebastian, è in fondo un sogno anche il flirt tra Rifkin, che ha le fattezze squisitamente respingenti del sublime Wallace Shawn, e la splendida e infelice dottoressa Rojas, una Elena Anaya ammantata da Allen di una malinconia seicentesca, come un luminoso ritratto femminile sprofondato in un’ombra scura dipinto da Murillo o Zurbarán: un sogno rivelatore, che invita Rifkin ad accettare con rassegnazione le disillusioni di un’età che le prevede una per una, insieme all’antidoto per uscirne con dignità. La loro conversazione al telefono, in cui allo struggimento dei saluti si sostituisce l’inevitabile disincanto del tramonto, raggiunge la statura di alcuni dialoghi di Dreyer ed evoca le ultime strofe dei Quattro Ultimi Lieder di Richard Strauss.
Ma al di là dei ‘contenuti’ e dell’intreccio, simile ad altre recenti pochade alleniane, che inducono gli sprovveduti e i distratti ad affermare che Woody ‘fa ormai sempre lo stesso film’, Rifkin’s Festival esprime un’idea assai meno concettuale di quanto sembri, del cinema come ‘oggetto da ri-maneggiare’, ben oltre la sua funzione terapeutica e psicanalitica: innanzitutto nel maniacale rispetto dei diversi rapporti di proiezione di ciascuno dei grandi film citati, dallo scope di Jules et Jim o 8 e ½ al 4:3 di Persona; ma è la riverenza della mano di Allen nel ricostruire e riprodurre, aderendovi con sovrapposizione mimetica, lo sguardo di ciascuno degli autori ‘rivisitati’ a regalare all’accorto spettatore un’ebbrezza da levare il fiato: la cinepresa a spalla e i bruschi cut di À bout de souffle (e Wallace Shawn che si occulta sotto le lenzuola come Belmondo), le lunghe soggettive di 8 e ½, le panoramiche impressioniste di Jules et Jim, la pioggia battente di Un homme et une femme, lo scandinavo lucore campestre de Il Posto delle fragole, la spiaggia senza sole de Il Settimo Sigillo, dove come il cavaliere Antonius Block, Mort Rifkin gioca a scacchi con Christoph Waltz abbigliato da Tristo Mietitore (il loro dialogo va annoverato tra le vette della scrittura comica di Allen), sono sequenze di un’altezza virtuosistica che dà le vertigini.
Forse, tuttavia, l’apice è raggiunto al termine della cena de L’angelo sterminatore, nel momento in cui ‘l’antichità’ di un’epoca scomparsa per sempre invade di prepotenza la totalità dello schermo sospingendoci sul baratro, inabilitati ad oltrepassarne la soglia, del mistero inconosciuto del tempo e della storia. Il tutto servito con la consueta leggerezza crepuscolare del Grande Vecchio, bagnata dagli intensi colori vespertini della tavolozza di Vittorio Storaro dietro la macchina da presa, ma stavolta con un senso maggiore di svolta definitiva, di fine imminente, di lungo accordo finale a spegnersi, riassunto nella magnifica, disincantata inquadratura in cui Rifkin guarda fuori dal finestrino dell’aereo che lo riporta in patria. Ma, come si diceva, era tutto un flashback: si è assistito al racconto di un paziente accomodato in poltrona nello studio del suo psicanalista. È lì che torniamo, perché il film possa concludersi con la battuta di Rifkin, al termine del suo racconto, rivolta al suo occhialuto interlocutore: ‘E lei che cosa ha da dirmi dopo tutto quello che le ho raccontato?’.
Nessuno sa se Rifkin’s Festival sarà o non sarà l’ultimo film di Woody Allen, al quale ovviamente tutti auguriamo di farne altri 100. Ma se fosse davvero il suo ultimo, non sarebbe, questa, la battuta finale perfetta per suggellare l’opera completa di uno dei geni maggiori che dall’altro secolo si sono inoltrati di parecchio anche in questo, a beneficio nostro e per la felicità di tutti quelli disposti a rendersene conto?
Cast&Credits
Rifkin’s Festival – Regia e sceneggiatura: Woody Allen; fotografia: Vittorio Storaro; montaggio: Alisa Lepselter; scenografia: Alain Bainée; musica: Stephane Wrembel; interpreti: Wallace Shawn (Mort Rifkin), Elena Anaya (Jo Rojas), Gina Gershon (Sue), Louis Garrel (Philippe), Sergi López (Paco), Christoph Waltz (la Morte), Steve Guttenberg (Jake); produzione: Gravier Productions, The Mediapro Studio, Wildside; ; distribuzione: Vision Distribution; origine: Usa/Spagna/Italia; durata: 92’.