In verità, in verità vi dico che un chicco di grano se caduto in terra non muore, rimane solo. Se invece muore, produce molto frutto.
Ivan Karamazov è un uomo solo e cattivo. Poco male, lo siamo tutti. Che poi lo dimentichiamo è un altro discorso: chi prima chi poi compie le proprie abiezioni, piccole o grandi che siano. Lui per esempio ha ammazzato suo padre. O meglio, ha istigato l’assassinio del proprio padre e da questo non si può tornare indietro, ma la colpa mica è sua, piuttosto di Dio che ci ha dato la libertà e che
Idea folle la libertà data a tutti, l’uomo non sa che farsene.
Umberto Orsini ce lo porta in carne ed ossa, Ivan Karamazov, dopo che di questi se ne sono perse le tracce nella Russia profonda. In una scenografia da brividi, che da soffitta diventa tribunale e poi altare e prigione e specchio dell’anima, ma che alla fine null’altro è che un pulpito da quale il più profondo dei fratelli – diviso tra razionalità e fede, moralità e immoralità, Dio e diavolo – tiene il suo discorso di commiato dal mondo. O almeno, così desidererebbe. Un personaggio dannato dalla sopravvivenza si agita sulla scena per poco più di un’ora e la bravura di Orsini dà pienezza a quel divincolarsi di corpo e anima, con il risultato di immergere lo spettatore nel tomo de I fratelli Karamazov di Dostoevskij e di riportarlo fuori con coscienza di aver imparato una lezione sull’uomo e sul suo rapportarsi con il mondo.
Quel feticcio del nichilismo!
Dopotutto, i russi sono così: abitare a sotto zero per buona parte dell’anno non deve essere facile, attaccarsi alla vodka e agli ideali è quindi l’unica salvezza, e non è detto che le due soluzioni siano concorrenti, piuttosto conniventi. E come si stringono loro all’ideale per eccellenza, quello più umano, cioè il cristianesimo, non c’è nessuno: se ne aggrappano come se fosse una mongolfiera in partenza e non se ne staccano nemmeno quando i piedi iniziano a pendere. Perché tu Cristo ci hai dato la speranza, ma noi siamo uomini e la speranza senza la forza per sostenerla, è poca cosa. E allora si arriva a rifiutarlo quel salvatore, ad attaccarlo, a ripudiarlo, sotto le vesti del Grande Inquisitore che nella Spagna moderna si ritrova davanti a un novello Cristo:
Sei tu? Sei proprio tu? Non aggiungi nulla? No, non potresti aggiungere nulla a quanto detto in precedenza da te stesso!
Ivan Karamazov, alias il Grande Inquisitore, l’uomo che vorrebbe che il diavolo fosse solo visione e che Dio fosse accanto a lui per sostenerlo di continuo davanti ai fallimenti dell’uomo nel perseguire gli ideali cristiani, questo novello disgraziatissimo Amleto guarda Cristo e lo dice:
Io non posso farci nulla con la libertà e la speranza che ci hai dato. E per questo io ti condanno.
E Cristo che fa? Lo bacia, dando altra speranza e così altra pena.
Dopo lo sceneggiato di Bolchi e La leggenda del grande inquisitore, Le memorie di Ivan Karamazov è uno spettacolo superiore che unisce un testo sacro alla letteratura con una prova attoriale solida e potente da parte di Orsini, guidato dalla regia di Luca Micheletti. La durata dello spettacolo permette di non perdere lo spettatore, i cambi di luce e la capacità di creare ulteriori spazi nello spazio già esposto dà possibilità di eco al flusso di coscienza del protagonista. Lui, il chicco di grano, è stato lasciato solo sul campo e non è morto, Dostoevskij lo ha graziato dalla condanna di morte che avrebbe posto fine al suo rimestare e così facendo lo ha condannato alla perenne riflessione su se stesso. Può quindi dire che
Sono un personaggio incompiuto, richiedo la mia sentenza.
E nell’attesa cammina, si agita sul palcoscenico.
Dal 10 al 22 ottobre in scena al Teatro Vascello di Roma
Le memorie di Ivan Karamazov – regia: Luca Micheletti; drammaturgia: Umberto Orsini e Luca Micheletti; interprete: Umberto Orsini; produzione: compagnia Umberto Orsini; durata: 70 minuti.