“Dio non costringe nessuno a credere. Infatti c’è luce sufficiente per chi vuol credere, ma c’è buio sufficiente per chi non vuol credere.” Lo diceva un certo Blaise Pascal, professione filosofo, devoto per motivi che i più s’illudono di comprendere, ma rimangono nella maggior parte dei casi ignoti. È da questo assioma che vogliamo partire per discernere la grottesca Via Crucis messa in scena da Antonio Rezza in occasione dell’ultimo Torino Film Festival.
Buio e luce, dunque, sono le nozioni di base che il regista si diverte a mettere in discussione, articolando il suo lungometraggio in un bianco e nero claustrofobico e manicheo: Il cristo in gola, va detto, è una parodia cattiva (non, badate bene, una cattiva parodia) della religione cristiana. No, non c’entra nulla il clero, troppo facile colpire l’Istituzione, sparare per così dire sulla Croce Rossa, sulla santissima tiara indossata dai prelati di Roma – non esiste film privo di tali strizzatine d’occhio. La pellicola di Rezza non si accontenta di far satira, no, essa intende distruggere il pacchetto completo – si legga: la Trinità, le Sacre Scritture, il Cristo sindacalista e antifranchista generato e non creato della stessa sostanza di Pasolini.
In principio, qualcuno direbbe, era il Verbo: e invece no. Perché nella Betlemme suburbana dell’autore, i personaggi hanno smarrito qualsiasi facoltà di parola: a riempire le lacune che il Mistero della Fede lascia in eredità ai posteri è un brusio indistinto, fastidioso, un ruminare perverso in cui il linguaggio perde la propria funzione comunicativa. Sprigionatosi dallo sguardo di Maria Vergine e dal contegno marziale dell’Arcangelo Gabriele, questo irritante rumore bianco assedia e colonizza le nostre menti, crescendo d’intensità a mano a mano che il nastro gira e finendo per sovrastare la cosiddetta Parabola (il cui scopo, fra l’altro, sarebbe quello di rimettere ordine nel caos della morale). Metaforicamente parlando, l’oscurità la fa da padrone: oscuro è il comportamento dei protagonisti, oscuri sono i loro gesti, oscuro è lo humor nero e sprezzante di cui la sceneggiatura fa uso smodato. Della luce di Pascal non rimane traccia.
Al contrario: l’epifania qui si rapprende tutta nell’ululato ferino che fuoriesce dalla bocca del Salvatore come da una caverna sempre aperta. Nessuna possibilità di comprenderne il reale significato. “Chi sei? Cosa fai?” chiedono due putti ricciuti al figlio di Dio. La risposta è un grido. “Ciao”, sussurra un ragazzo. La risposta è un grido. Il credente e il non credente sono condannati a roteare in eterno le braccia attorno al corpo – e all’anima. La risposta è un grido (solo in apparenza salvifico). Perfino la religiosità incolta e scaramantica della vecchia comare non sembra scorgere una risposta nella voce dell’Altissimo: “Perché non fai piovere?” La risposta è un grido… decisamente nessuna luce in fondo al tunnel.
A cercare di riportarci sulla retta via è un Ponzio Pilato sofista e nevrotico, una sorta di Carlo Verdone del 30 d.C. affetto da cefalea, dissenteria e un cinismo post-nietzschiano che ben si sposa alle idiosincrasie del filosofo per professione: “Il problema di Dio”, sentenzia il Diavolo o il libero pensatore (due figure tradizionalmente interscambiabili) “è che non ha un Io sviluppato”. E ancora: “il divino è la causa di Dio. L’umano, la causa dell’uomo. La mia causa non è né il divino, né l’umano. Non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, bensì solo ciò che è mio. E non è una causa generale, ma unica. Così come io stesso sono unico. Non te l’aspettavi questa profondità di pensiero, vero ragazzo?” No, in effetti no.
In un crescendo turbinoso di assurdità, ci avviciniamo al temuto Epilogo, con il suo Giardino dei Getsemani e la terribile minaccia della Croce – una Croce a cui il Nazareno lavora per tutta la sua breve esistenza, torcendo fra le mani gli strumenti lasciatigli in omaggio dal padre putativo Giuseppe. Il quale sghignazza sardonico. Una stelletta al merito – come direbbe il nostro Arcangelo-soldato – va all’Ultima Cena: qui Rezza alza l’asticella del non consentito, esplorando le svariate sfaccettature di cui l’aggettivo “blasfemo” si compone. Nel lungometraggio, infatti, ad essere profanata, sbeffeggiata, violata non è soltanto l’icona religiosa (sarebbe fin troppo semplice), ma l’icona cinematografica. In poche parole: Pier Paolo Pasolini. Sì, perché il Cenacolo allestito dal cineasta piemontese richiama alla mente La ricotta, il celebre corto che valse all’opera collettiva Ro.Go.Pa.G. (1963) la censura per vilipendio. Il Gesù mugghiante di Rezza spezza una pagnotta che sembra non finire mai e imbottisce a pantagrueliche manciate le fauci degli apostoli, esibendo la medesima, inconsapevole brutalità con cui la finta troupe pasoliniana lanciava il cibo al povero Stracci. Il quale, poco più tardi, morirà di indigestione – del resto, egli “non trova altro modo” per ricordare al mondo la sua presenza.
Il Cristo interpretato da Rezza, invece, lo trova eccome: prima si fa crocifiggere dalla madre, o meglio, da una Madonna estatica e impassibile come un’assassina (o una martire, che è poi la stessa cosa). Dopodiché scende dal trespolo e traduce in termini terreni l’assurdo salto nel vuoto a cui ogni fedele si prepara: così, il figlio di Dio (che è Dio e nessun altro) avrà un figlio da Maria (sua madre e non-madre), il quale morirà in Croce perché tutto possa ricominciare da capo. Per l’eternità. Così, “senza cristianesimo.” Se vi siete ritrovati a pensare che, in fondo, è un po’ troppo, beh siete sulla strada giusta. Come diceva quel certo Pascal? Ah sì, “c’è buio sufficiente per chi vuol credere, ma c’è luce sufficiente per chi non vuol credere”. Una cosa del genere, insomma: “più pulita”.
In sala dal 18 dicembre
Cast & Credits
Il Cristo in gola – Regia: Antonio Rezza; sceneggiatura: Antonio Rezza; montaggio: Barbara Faonio; interpreti: Antonio Rezza, Stefania Saltarelli, Maurizio Catania, Gianmarco Balsamo, Domenico Vitucci, Paolo Zanardi, Maria Bretagna, Federico Carra, Giordano Rezza; produzione: rezzamastrella; origine: Italia 2022; durata: 78’.