The Crow di Rupert Sanders

Per chi, come il sottoscritto, aveva 17 anni nel 1994 quando uscì, Il corvo di Alex Proyas, tratto dalla serie di fumetti realizzati da James O’Barr, ebbe un impatto potente, montato da una campagna mediatica che oggi sarebbe amplificata dalla morbosità e dall’ossessività del “condividi” social: l’aspetto sensazionale risiedeva purtroppo nel fatto che il protagonista maschile, Brandon Lee, tra l’altro figlio di quel Bruce iconica figura dei film d’arti marziali, era morto durante le riprese, ucciso dal colpo di una pistola caricata accidentalmente non a salve, ma con proiettili veri. Il film non era ancora terminato e per montarlo vennero utilizzate delle scene precedentemente girate dal giovane Lee neanche trentenne. Si trattava dunque di una pellicola- proprio quella di celluloide, che all’epoca ancora esisteva e che diveniva simbolicamente il limbo tra il materiale e l’immateriale- interpretata in parte da una fantasma che prendeva il ruolo di un morto resuscitato: Il corvo è infatti Eric Draven, ucciso violentemente da una gang metropolitana di spacciatori e tossici (siamo in una Detroit piovosa e desaturata in luminosità impallidite e oscure tonalità blu/notte), che torna in vita dalla condizione di anima perduta per poter vendicare la donna amata e se stesso, e ritrovare la pace.

Mi sono sempre chiesto quale fosse il punto esatto del film da cui iniziava ad apparire l’Eric/Brandon virtuale, l’identificazione tra la morte nella finzione e quella nella realtà, e se magari la vendetta perpetrata da Craven non fosse la traslazione, su un piano espressivo e narrativo, di quello che avrebbe voluto fare anche Lee nei confronti della negligente e colposa produzione (la quale dal canto suo cavalcò senza ritegno l’onda di questa inaspettata pubblicità e il conseguente successo di pubblico che ne derivò). Probabilmente, al di fuori di una simile eco, Il corvo sarebbe apparso un buon action-thriller, innervato da un overdose di romanticismo post dark, per quanto molto attento alla parte più esteriore ed estetizzante, al design e al look, all’apparato scenografico e coreografico dei vari omicidi, che non ad esprimere una visione realmente disturbante di un inferno cittadino quasi distopico, nel quale le giovani generazioni ripropongo modelli di dominio e prevaricazione, in un contesto di fuoco armato, incendi e dipendenze.

Il remake che ne ha realizzato per il trentennale dalla realizzazione Rupert Sanders non parte – fortunatamente –  da simili tragici presupposti e scambi tra vita vissuta e vita rappresentata, e la percezione che se ne ha è dunque limitata alla sua resa sul piano cinematografico, non influenzata da altro (pur dalla prospettiva di un’età diversa, nonostante sia una storia che continui a parlare prevalentemente agli adolescenti). Questa volta Eric ha così il corpo più massiccio e meno aggraziato e gli occhi spiritati e vitrei di un altro figlio d’arte decisamente più fortunato, Bill Skarsgard    (il padre è lo svedese Stellan de Le onde del destino e di altre decine e decine di film in una carriera cominciata negli ani’70),  divenuto celebre sotto l’irriconoscibile e multiforme trucco del pagliaccio mostruoso Pennywise nel recente dittico di It. Non dovrebbe contare però qualche macabro avvenimento da backstage, perché il materiale di partenza era e rimane già abbondantemente  ricco di prospettive sulla contemporaneità che stiamo vivendo: un sottobosco di ragazzi dalle identità indefinite, sfuggenti, precarie e oppresse da un potere adulto che ha letteralmente fatto un patto con il diavolo e ne ha vampirizzato la linfa vitale. Un potenziale sprecato da questo nuovo The Crow che non potendoci raccontare una vicenda così tragica e toccante come quella di Brandon Lee, non ha altro appiglio se non una sceneggiatura assolutamente confusa e approssimativa dove non si riesce a stabilire un contatto con i personaggi, con le loro motivazioni profonde e le inquietudini; non c’è il vissuto che li ha portati a trovarsi nel punto in cui si trovano e non ci si fa trasportare  dentro le loro esistenze invase dallo straordinario della dimensione fantastica e orrorifica.

Eric si trova in istituto rieducativo/carcere per addicted a sostanze, e in passato ha subito un qualche trauma al centro della bella scena d’apertura (lui ragazzino contaminato dal sangue di un cavallo bianco stritolato dal filo spinato, nella desolazione di una periferia apocalittica). È un solitario, un eccentrico stigmatizzato dagli altri detenuti, ma non è concesso sapere i perché e i per come della sua diversità; Shelley, la ragazza di cui si innamora e con cui stringe un patto di lealtà fino e oltre la vita terrena, è invece in fuga da un non meglio precisato gruppo di  ricchi e spietati aristocratici  che vogliono fare fuori lei e le sue amiche in quanto in possesso di un video che potrebbe incastrare qualcuno di molto potente. Quando li trovano e li uccidono, comincia la mattanza giustizialista del temporaneamente redivivo Lui. Le cause sono del resto lasciate molto ad una libera ricostruzione – chi è chi e perché  lo fa-  e ci si rende presto conto dell’assoluto disinteresse degli autori per questi dettagli che avrebbero dovuto essere integrati e sublimati, nelle intenzioni, in una certa forza visiva ed evocativa delle immagini. Il punto di rottura è proprio nel rimasticamento un po’ opportunistico e nella riproposizione fiacca dello stile dei migliori sci-fiction e action movies che la generazione post-Corvo versione 94 ha potuto vedere negli ultimi trent’anni: vengono in mente, in una memoria random,  titoli come Matrix, Constantine, The Batman fino a John Wick 4, opere e cineasti dei quali Sanders non possiede il respiro, la durata, la capacità di rendere credibile l’impossibile e dare differente sostanza e rilievo al tratto fumettistico (e Skarsgard non ha certo ne il carisma ne la presenza di Keanu Reeves…).

Il corpo invincible in grado di autocurarsi di Eric e la carneficina di men in black durante l’opera lirica (chissà se il riferimento extra genere è pure alla sequenza di omicidi a catena ne Il padrino-parte III di Coppola durante la messa in scena de La cavalleria rusticana al Teatro Massimo di Palermo) scorrono senza fremiti, pulsioni, entusiasmi. Giusto un certo gusto splatter con Eric che usa il proprio torace impallinato e trafitto da coltelli e spade come se fosse esso stesso un’arma- motivo per cui ogni assassinio è un tete a tete ravvicinato con la vittima/carnefice di turno (con tanto di teste mozzate buttate in platea)- crea un minimo coinvolgimento, se non altro nel ritmo e nel provare la sensazione di far passare il più velocemente possibile le quasi due ore di durata. Per il resto il cast, pur con qualche scelta azzeccata  (la fascinosa cantante britannica FKA twigs che fa Shelley, il mellifluo Danny Houston -ancora un figlio d’arte-  nel ruolo cattivo di cui non si conosce provenienza e destinazione) è di una dimenticabile e monocorde routine, e le frasi a effetto sparse qua e là sull’amore più forte dell’odio, della morte e dell’egoismo non arrivano mai neanche al sublime della banalità. Ci si ricorda magari di una scena shock: un campo-controcampo in primo piano di Eric e Shelley, mentre entrambi muoiono soffocati dai loro aguzzini dentro una busta di plastica e sembrano scambiarsi un agonia, una promessa, una dichiarazione. Solo in quel punto si ha l’illusione di (ri)ascoltare il leitmotiv del primo film: Non può piovere per sempre…

In sala dal 29 agosto


The Crow  –  Regia: Rupert Sanders; sceneggiatura: Zach Baylin, William Josef Schneider dal fumetto omonimo di James O’Barr; fotografia: Steve Anis; montaggio: Chris Dickens, Neil Smith; musica: Volker Bertelmann; interpreti: Bill Skarsgard, FKA twigs, Danny Houston, Josette Simon, Laura Birn, Sam Bouajila; produzione: Victor Hadida, Molly Hassell, John Jencks, Edward R.Pressman; origine: Regno Unito, Stati Uniti d’America, Francia; durata: 111 minuti; distribuzione: Eagle Pictures Italia.

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