Tra le onde di Marco Amenta

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Lampedusa. Due uomini entrano in un locale. Li osserviamo dal fondo, quasi ci ritrovassimo a vagare in un labirinto di tapparelle socchiuse, mobili incellofanati, vecchie ghirlande, tavoli vuoti, scatoloni. Le stanze appaiono buie, di un buio violaceo che riflette il colore del mare. Fuori echeggia un vento furibondo. Il primo uomo chiede al secondo di fare luce, per poi avventurarsi nell’oscurità. La cinepresa rimane nascosta come un gatto atterrito: ci muoviamo a tentoni attorno al visitatore, come se qualcosa ci inquietasse. Abbiamo, inoltre, la fastidiosa impressione che il nostro corpo sia murato fra le pareti: un senso di claustrofobia ci pervade, non riusciamo a spostarci, né a comprendere ciò che sta succedendo. Nessuno parla, nessuno si sente in dovere di spiegare il motivo della sua presenza fra quelle ombre. Nel frattempo, il boato del mare riempie la scena e ci impedisce di fuggire altrove.

Marco Amenta, regista e fotoreporter italiano qui giunto al suo settimo lungometraggio, sa quello che fa: il suo sguardo ci spinge letteralmente Tra le onde, in una dimensione onirica sospesa ai margini della civiltà – e dell’animo umano.

Il film racconta la storia di Salvo (Vincenzo Amato), ex lupo di mare dall’indole inquieta e dal volto accigliato. Salvo lavora nel settore ittico, si muove fra gli abissi e gli enormi camion in cui il pesce viene caricato, congelato e infine trasportato da un’isola all’altra. Lo stesso, talvolta, accade anche alle persone – un concetto che il nostro protagonista conosce molto bene. Una notte, ad esempio, egli vede un naufrago annaspare all’orizzonte. Tenta di salvarlo, ma lo sconosciuto si spegne fra le sue braccia. Sconvolto, Salvo fruga i vestiti alla ricerca di una parola, di un passato, di un racconto: ma ottiene soltanto un nome (Nadir), una fotografia scolorita e una lunga lettera della moglie ormai emigrata in Sicilia. Qualcosa, nella pellicola e nella mente dei suoi personaggi, finisce per sbloccarsi. La macchina da presa si stacca dai tramezzi a cui inizialmente sembrava incatenata, dalle finestre sprangate a cui lo spettatore si aggrappava nella speranza di conoscere più a fondo l’eroe e i suoi fantasmi.

Nello sconclusionato tentativo di ricongiungere i due amanti anche dopo la morte, Salvo parte per un lungo viaggio ai confini del cosiddetto mondo occidentale, nonché della sua memoria. Così egli s’imbarca per Porto Empedocle, insieme all’ignoto defunto e all’ex compagna (Sveva Alviti) ritrovata per caso in un Night Café. Lei si chiama Lea e, di professione, fa la cantante. La donna parla poco, ostenta un’aria ostinatamente apatica e gira sempre in abiti sgargianti, come se uscisse da un sogno molto strano. La sua vita, come quella di Salvo, è stata interrotta da una serie di eventi che il protagonista ha riposto fra le stanze vuote, fra le vecchie ghirlande e gli scatoloni del suo locale ormai chiuso. Ma ogni mareggiata, si sa, porta a galla ciò che di solito si cela sul fondale: così, i ricordi iniziano a riemergere, a fluttuare, a “fare su e giù per le onde”, riaffiorando a tratti solo per poi venire inghiottiti dal “malo tempo” che si porta via tutto.

L’intero film, del resto, oscilla avanti e indietro: Come Nadir all’inizio dell’avventura, anche Salvo si dibatte fra le acque inospitali della sua precedente esistenza, a volte rischiando di smarrire la costa, nonché di affogare nel proprio uragano emotivo. Marco Amenta intesse un’intricata rete narrativa nella quale l’ordine cronologico degli avvenimenti s’infrange, spezzandosi in una serie d’ingombranti reminiscenze, di spettri, di luoghi “già visti, ma non si sa bene dove, né in quali circostanze”. I personaggi si muovono con estrema lentezza, per l’appunto, come gatti atterriti: ciò che appartiene agli abissi non dovrebbe mai essere restituito alla terraferma. Eppure Salvo ci prova, cercando di sovrapporre vita e morte, partendo per un viaggio che lo trascinerà oltre le Colonne d’Ercole, fantasticando al condizionale, immaginando ossessivamente “ciò che sarebbe successo, se soltanto”.

Al termine dell’itinerario rimaniamo disorientati, confusi, smarriti, incapaci di evadere da un limbo fatto di strade incolte, saline, spiagge a perdita d’occhio, navi deserte e quartieri-dormitorio che sembrano provenire da un dipinto surrealista. Gli sceneggiatori trasformano il ricordo in esperienza visiva, lasciando dondolare la cinepresa fra i sentimenti e i desideri che gli interpreti non si dichiarano. Il ritmo accelera, poi rallenta, poi accelera di nuovo, fino a quando non perdiamo di vista la meta: è così che si sente Salvo, incapace di muoversi davvero, incapace di distinguere ciò che è da ciò che avrebbe potuto essere, incapace infine di congedare i giorni che furono e salvare sé stesso dal mare in tempesta.

In sala dal 1 dicembre


Cast & Credits

Tra le onde – Regia: Marco Amenta; sceneggiatura: Marco Amenta, Ugo Chiti, Niccolò Stazzi, Roberto Scarpetti; fotografia: Sara Purgatorio; montaggio: Esmeralda Calabria, Letizia Caudullo, Aline Hervé;  interpreti: Vincenzo Amato (Salvo), Sveva Alviti (Lea), Daniele Monachella (Nino); produzione: Eurofilm in associazione con Achab film, Oberon Media International, Armeni G.E.S. Multimedia Productions; origine: Italia 2021; durata: 94’; distribuzione: Eurofilm.

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