“Check you Ego at the door” recitava il messaggio scritto davanti all’ingresso della leggendaria sala di registrazione dove venne inciso il brano We Are The World, probabilmente la canzone di beneficenza per eccellenza, il brano dal testo ricco di buoni sentimenti che fece il giro del mondo e riunì le più grandi celebrità della storia del pop, e non solo. In un’epoca e in una congiuntura di circostanze senza pari, fu un evento così straordinario che ha raggiunto proporzioni leggendarie.
A 39 anni di distanza, questo documentario lo racconta, regalandoci uno sguardo all’interno di un universo mosso da logiche di successo, personalità fragili, infantili ed egocentriche, talenti straordinari, e gare di popolarità.
Vien quasi da compatire i poveri artisti quando si sentono gli agenti organizzatori dietro l’evento che ne parlano come ingredienti pregiati da buttare dentro ad un pentolone alla rinfusa, l’importante è averne il più possibile per garantire il massimo della risonanza.
Fortunatamente però, le vere menti dietro a questo progetto, oltre ad essere star, sono musicisti seri e persone che hanno a cuore un’ideale musicale ed umanitario: abbiamo due attivisti come Harry Belafonte e Bob Geldof, da cui è partita l’idea; Lionel Richie, vero motore e artefice, e Quincy Jones, il cervello dietro alla produzione. Ai quali aggiungiamo Michael Jackson, la creatura sovrannaturale, dal talento sublime, che non sa suonare nemmeno uno strumento e che compone creando beat e linee melodiche con la voce.
La parte più delicata è sicuramente spettata a Lionel; in origine la canzone doveva essere composta da lui, Michael Jackson, e Stevie Wonder. Stevie però era irreperibile e la logistica dell’evento richiedeva che la canzone venisse scritta entro pochi giorni. Per cui rimanevano solamente Lionel e Michael, che, come dicevamo, si serve di un processo compositivo piuttosto particolare. I tempi stretti riescono a mettere la giusta pressione ai due che se ne escono con il brano già bello e finito in tempo record. Ora è il momento di far partire il carrozzone: il roster di artisti che si stava radunando grazie alle connessioni dei nostri stava diventando veramente impressionante: Diana Ross, Steve Perry, Cindy Lauper, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Harry Belafonte, Paul Simon, Ray Charles, Tina Turner, Dan Akroyd, solo per citarne alcuni, molti di loro all’apice della loro carriera, su ognuno si potrebbe scrivere una biografia sconfinata di successi, mai prima si era visto nella storia del pop un tale dispiegamento di talenti collaborare ad un unico grande progetto.
Lionel Ritchie, ormai rientrato a più modesti ranghi di celebrità, all’epoca era uno degli artisti mediaticamente più presenti e rilevanti, quell’anno era presentatore degli AMA e vinse diversi premi, ebbene, quella stessa notte era anche alle prese con la registrazione di We are the World, in un tour de force irripetibile ed adrenalinico, quale altra circostanza avrebbe del resto permesso di riunire in un unico luogo ed un unico momento tutte quelle star, con le loro agende fittissime? Doveva essere per forza quella notte.
Il fattore principale che ha permesso di tenere insieme personalità così strabordanti e contrastanti è stato probabilmente il fattore tempo, averli tutti assieme in un unico studio significava avere un piano ben preciso da rispettare, ed uno studio preventivo dell’armonia, degli assoli, e delle fasi di registrazione, qui entra in gioco Tom Bähler, il compositore incaricato di accordare le partiture vocali degli artisti e tirarne fuori un ensemble coerente, che ci offre, nella sua intervista, una delle testimonianze più interessanti.
Quincy Jones, al timone, dava spesso segni di impazienza, specialmente quando qualche artista provava ad inserire nuovi elementi che per forza di cose sarebbero andati a stravolgere la struttura del brano iniziale, e tutto questo avrebbe richiesto tempo, specialmente se si lasciava che la creatività di ogni singolo elemento potesse avere voce in capitolo. Era evidente che non era questa la strada, “Stick to the plan”, doveva essere l’unico approccio possibile.
Chi non ricorda il meme che imperversava fino a qualche tempo fa sui social del close-up della faccia di Bob Dylan confuso e spaesato mentre farfuglia le parole del coro guardandosi attorno, accompagnato da frasi come «There will be a moment in life when you are feeling like Bob Dylan is feeling while singing “We are the world”» il documentario fa luce anche su questo, in uno dei momenti più climatici, illustra e descrive la personalità del leggendario cantautore, vero pesce fuor d’acqua, e come, grazie a Stevie Wonder, sia riuscito a sbloccarsi e a concedersi l’unico vero sorriso che gli vedremo mai fare in tutta la serata.
Viene anche fatto accenno all’illustrissimo assente, la ciliegina sulla torta, colui che fino all’ultimo si è sperato di coinvolgere invano: Prince, la vera leggenda del pop, virtuoso polistrumentista, genio musicale, dalla produzione eclettica ed una creatività inesauribile. Ma questo poco importa, “He had Purple rain, that was a big deal” questo è tutto ciò che dicono gli agenti dello showbiz sul suo conto ed è il tipico esempio di come gli artisti vengano ridotti spesso a quell’unica maledetta hit con il quale verranno identificati negli anni a venire.
Abbiamo detto poco della forma e della qualità del documentario in sé, e questo non è un male, perché la struttura, standard e ben collaudata, risulta impeccabile: i vari episodi vengono illustrati accompagnati da filmati d’archivio estremamente ben realizzati, con una restituzione atmosferica notevole. Pare quasi di essere lì con loro durante quella fatidica notte, stanchi, esausti, ma anche commossi dalla semplicità del rapporto umano che si instaura quando ci si trova senza guardie del corpo, agenti, fans, giornalisti. Diana Ross scoppiò addirittura in lacrime alla fine dell’esperienza.
Tra coloro che hanno partecipato alle interviste, figura lo stesso Lionel Richie, il cuore pulsante dell’evento. La sua testimonianza si fonde perfettamente con quella di un cameraman incaricato di documentare l’evento e con quella del già citato Tom Bähler. A queste voci si aggiunge la testimonianza di Bruce Springsteen e dell’ingegnere del suono, Humberto Gatica. L’alternanza di queste prospettive offre una visione completa del vasto meccanismo in funzione, con piccole curiosità e dettagli, che si vorrebbe continuare ad ascoltare.
Il regista, già autore dell’ottimo Be water, incentrato sulla figura di Bruce Lee, dimostra estrema padronanza nella costruzione narrativa e chiarezza nell’organizzazione dei vari elementi, si mette completamente al servizio della sua opera, con risultati estremamente felici.
Ps. A mio giudizio, la glorificazione dell’evento, e i fondi raccolti, fanno tutte parte di una serie di iniziative benefiche nei confronti dell’Africa che l’America ha cominciato a praticare attorno agli anni ’70. Stiamo parlando però, dello stesso governo che negli anni precedenti ha ripetutamente sabotato e distrutto le democrazie africane, e che con l’Etiopia, in particolare, ha avuto una relazione ambigua. Non vogliamo con questo gettare un’ombra sulla buona fede dell’iniziativa e le intenzioni benefiche di raccolte fondi come queste, che, nonostante il loro carattere di facciata, vanno sicuramente apprezzate. Ma neppure celebrarle oltre al dovuto, specialmente per il loro carattere benefico, in fondo stiamo parlando di show business, dove ciò che conta veramente è il ritorno di immagine. Ed anche questo è un dettaglio da includere, quando parliamo di USA for Africa.
Consigliato.
Su Netflix
We are the World: La notte che ha cambiato il pop (The Greatest Night in Pop) – Regia: Bao Nguyen; musica: Darren Morze, Goh Nakamura; fotografia: Caleb Heller; montaggio: David Brodie, Michael Engelken, Carlos Haynes, Nic Zimmermann, Will Znidaric; interpreti: Dan Aykroyd, Harry Belafonte, David Breskin, Christie Brinkley, Lindsey Buckingham, David Byrne, Tom Bähler, Kim Carnes, Ray Charles, Phil Collins, Bob Dickinson, Bob Dylan, Sheila E., Humberto Gatica, Bob Geldof, Daryl Hall, James Ingram, Steven Ivory, Jackie Jackson, La Toya Jackson, Marlon Jackson, Michael Jackson, Randy Jackson, Tito Jackson, Al Jarreau, Waylon Jennings, Billy Joel, Quincy Jones, Larry Klein, Ken Kragen, Cyndi Lauper, Huey Lewis, Kenny Loggins, Madonna, George Michael, Bette Midler, John Oates, Jeffrey Osborne, Steve Perry, Anita Pointer, June Pointer, Ruth Pointer, Prince, Wendy Rees, Lionel Richie, Smokey Robinson, Kenny Rogers, Diana Ross, Paul Simon, Bruce Springsteen, Harriet Sternberg, Sting, Tina Turner, Sarah Vaughan; produzione: Dorothy Street Pictures, Paramount; origine: USA, 2024; durata: 96 minuti; distribuzione: Netflix.