We own this city (Miniserie)

  • Voto

No justice, no peace!

Non esiste studioso, critico o, più semplicemente, appassionato di serialità televisiva che non conosca David Simon e George Palecanos: due nomi – certo, più il primo – che accendono nella mente quella spia abbacinante chiamata The wire, una delle serie che più di tutte ha trasceso il format televisivo, per rimodellarlo e spingerlo verso un’evoluzione tale, senza la quale il piccolo schermo non saprebbe raccontare certe storie ed epopee come fa oggigiorno. È Storia, né più, né meno.
Pelecanos, apprezzato autore di romanzi polizieschi, oltre ad aver contribuito alle fortune del grande dramma consumato tra i ghetti, le strade e gli uffici di Baltimora, può contare sulla meravigliosa The Deuce – ideata assieme al sodale Simon -, serie recente, con protagonista un “doppio” James Franco, concepita per narrare la nascita dell’industria del porno. Insomma, quando Simon e Pelecanos uniscono le forze, tutto passa in secondo piano: ciò che conta è l’epica del racconto, che si tratti di gangster da quattro soldi, anime sperdute o politicanti supercorrotti.

Stavolta, tocca alla polizia di Baltimora. Sì, ancora Baltimora, tra fiumi di cemento, pattuglie in uniforme guardinghe come iene, corruzione e occhio da cronista navigato. Perché We own this city tratta tutti questi temi e molto altro, in un vero e proprio ritorno post-The wire in quella città che sembra un pezzettino di tartaro staccatosi dagli inferi e incastrato nel cuore malandato di un’America corrosa dal nichilismo, dall’egoismo e dal malaffare.
Seguendo il loro istinto di scrittori, Simon e Pelecanos non badano a fronzoli e raccontano le loro storie nel modo più nudo e crudo possibile: lasciando che siano le “imprese” dei loro protagonisti a parlare; compito che spetta al Wayne Jenkins interpretato magnificamente da un Jon Bernthal spiritato, un cane rabbioso avido e noncurante di quanto il baratro verso il proprio fallimento come esponente delle forze dell’ordine, padre e marito sia sempre più vicino, un tossicodipendente da denaro sporco, fama e potere. Jenkins e compagni incarnano non solo la debolezza di chi dovrebbe sempre perpetrare il buon esempio, ma riportano alla radice quanto di malvagio gli autori avevano già narrato nelle cinque stagioni dell’immensa serie cult: We own this city è, dunque, il lato oscuro, e purtroppo vero – essendo basato su fatti realmente accaduti -, che annichilisce quel «Torniamo a casa» sussurrato con commozione e gran forza d’animo dal detective Jimmy McNulty, prima che calasse il sipario sulla Baltimora a pezzi, ma desiderosa di speranza vista in The wire. Invece, Simon e Pelecanos ci dicono che, a distanza di anni, nulla è cambiato, tutto (o quasi) è peggiorato.

Quasi, perché c’è ancora chi lotta alla ricerca della verità, chi rinuncia a sé, barricandosi in uffici-catacombe per seguire passo dopo passo chi pensa di comandare una città ferita a morte dall’alto del loro inscalfibile piedistallo blu-navy. Sono quei detective, avvocati e reporter che tengono in vita il decoro sociale di un’istituzione, lottando con gli unici strumenti che possono garantire loro la rivalsa: le tecniche d’inchiesta e il benessere civico. Così We own this city si sviluppa in soli sei episodi, raccontando cronaca e dramma individuale alla stregua di un reportage meticoloso e iper-reale, in pieno stile The wire; attraverso un cambio di prospettiva spiazzante – perché stavolta i veri cattivi sono i vigilanti -, la miniserie offre un ritratto scoraggiante e penoso di un corpo di polizia mai così in discussione, a sua volta vittima senza giustificazioni di un apparato amministrativo non in grado di tutelare abbastanza quegli agenti che, giorno dopo giorno, sono costretti a portare in salvo pelle e distintivo. Ed ecco che la distanza tra poliziotto e criminale svanisce, tutti come bestie in cattività, pronte ad azzannarsi mentre il carceriere è voltato da un’altra parte. We own this city descrive con schiettezza la legge del più forte, una società disintegrata da rancore e violenza e la ferale e logorante bramosia da potere, attraverso una messinscena scandita da un’escalation di ingiustizie e pentimento; perché, alla fine, da Jenkins in giù – e si potrebbero spendere parole a volontà sul triste destino del detective Suiter, interpretato da un Jamie Hector che, stavolta, differentemente da The wire, torna in un ruolo ambiguo e decadente -, ognuno di loro non è altro che un carnefice bastonato, divorato dal rammarico. E, purtroppo, ancora incapace di comprendere come abbia potuto così facilmente abbandonare se stesso.

Su Sky Atlantic


We own this city –  genere: drammatico, poliziesco; showrunner: David Simon, George Pelecanos;  stagioni: 1 (miniserie); episodi: 6; interpreti principali: Jon Bernthal, Wunmi Mosaku, Jamie Hector, Josh Charles, McKinley Belcher III, Darrell Britt-Gibson, Rob Brown, David Corenswet, Dagmara Domińczyk, Don Harvey, Larry Mitchell; produzione: Spartan Productions, Blown Deadline Productions, HBO Entertainment; network: HBO; origine: U.S.A., 2022; durata: 60′ minuti; episodio cult: episodio 6.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *