A prescindere dalla squadra che tifate. Domanda: preferite lo stile casual di Guardiola o il collo alto, rigorosamente Harmont & Blaine, di Pioli? Vi piace maggiormente un Klopp dalle tute ipertecnologiche o la tenuta classica di Allegri? E che dire delle cravatte molto stilè di Inzaghi? E vogliamo parlare del look di Conte o di Spalletti?
Gli ultimi decenni, citando un proverbio francese ripreso dall’ex allenatore romanista Garcia, hanno messo al centro del villaggio la figura del mister, del coach. L’escalation si registra sia in termini di compensi economici, schizzati in alto vertiginosamente, sia in termini di percezione dell’impatto reale di un allenatore sui risultati di una squadra. Un mister, per restare ad alti livelli, non può più permettersi di essere un ottimo tattico o un profondo conoscitore del gioco del calcio. Nel suo lavoro rientrano a tutti gli effetti competenze e abilità trasversali, che vanno dal saper gestire un gruppo di atleti con tecniche empatiche, psicologiche al conoscere i media e rapportarsi ad essi per il bene della squadra e della società per cui si lavora. In questa sfera, di interazione con lo storytelling mediale e l’immagine, rientra anche l’estetica e lo stile d’abbigliamento.
Sono lontani i tempi in cui la tuta con il marchio della società la faceva da padrona, raccontandoci di un calcio più romantico e rionale. Il taglio dei capelli, l’oggettistica, l’utilizzo di un preciso stile iconico oggi caratterizzano fisiologicamente il percorso di un allenatore. Quest’ultimo è prodotto a tutti gli effetti, un brand da veicolare nel flusso h24 in gioco tra interviste, approfondimenti, reazioni a caldo e analisi settimanali. I braccialetti di Pioli, la pelle abbronzata di Mancini, i cappelli di Klopp, le giacche scure di Allegri diventano dei veri e propri biglietti da visita, simulacri di uno stile simbolico che vanno a staccarsi dal gioco del calcio per farsi marchio.
In questo periglioso versante ogni scelta porta a delle conseguenze dicotomiche spesso prive di contenuto, da qui la sigaretta di Sarri che diventa simbolo popolare di contro all’élite del calcio, l’agitazione perenne di Gattuso che lo relega, erroneamente, in un calcio poco offensivo, le precarie scelte comunicative di Mazzarri che lo isolano dal resto del villaggio.
Ultimo esempio di questo trend, la scelta di Andrea Pirlo come allenatore, l’anno scorso, della Juventus. Una decisione azzardata, dettata sia dal portafoglio ma anche dal richiamo dello stile, aplomb da Vecchia Signora del grande ex centrocampista e rivelatasi sul campo ovviamente inefficace, fallimentare.
Siamo passati dunque da un allenatore da campo ad un allenatore, tecnicamente e praticamente, vero e proprio brand di sé stesso. Nel mezzo abbiamo vissuto l’allenatore aziendalista, il tattico, l’istrionico e via discorrendo. Questa nuova fase aderisce al nostro contemporaneo e, allo stesso tempo, può diventare un’arma a doppio taglio per ogni allenatore se non vissuta con equilibrio visto che alla fine dei giochi esiste un unico obiettivo: vincere.
Dopo la vittoria di Cagliari, il mister della Roma Mourinho, vero genio della comunicazione, ha lasciato una testimonianza sui social facendosi ritrarre come novello Rugantino mentre mangia sugli scalini fuori dall’Unipol Domus. La sua sembrerebbe una posa da stagista disincantato, questa volta con tuta, che attende, con il suo cartoccio, l’arrivo della metro. Basterà allo Special One, plurivincitore e plurimilionario, rimodulare, riconfigurare, dopo anni di Premier, la sua immagine in Italia e ottenere così risultati? Ovviamente no, ma ciò è un’ulteriore testimonianza del periglioso registro estetico dei mister dei nostri tempi.