Il palazzo di Federica Di Giacomo

«La malattia dell’espressione», dice uno dei protagonisti del film. E forse potrebbe essere un sottotitolo del documentario Il palazzo di Federica Di Giacomo, che era stato presentato, come evento speciale, a Venezia 78, nelle “Giornate degli Autori” e adesso esce in sala.

Racconta (principalmente) la vita di Mauro, un aspirante, non realizzato, regista cinematografico. E (anche) la storia di Rocco, aspirante, non realizzato, almeno finora – ma è davvero difficile immaginare una possibilità di successo in futuro – cantautore. E con loro la storia di un gruppo di persone non più giovani, uomini e donne con un vago, accettato, consapevole, persino con una certa ironia, a tratti con un leggero compiacimento, senso di decadenza e fallimento addosso. Non esente da una sottile, beffarda, vitalità. Persone che condivisero un’esperienza giovanile singolare, stravagante, lunare: vissero (quasi) tutti, per un periodo ormai lontano, in un palazzo nel cuore di Roma con affaccio pazzesco su San Pietro, coccolati dalla disponibilità di uno di loto, il proprietario, e guidati, legati, sedotti, illusi senza malafede, dalla personalità eccentrica, dal carisma, forse dalla follia, dal delirio creativo, di Mauro: autore di un film senza inizio nè fine, fatto solo di riprese ricercate, di immagini visionarie, più di luce che di storia, del quale gli ospiti stessi del palazzo, una specie di comune senza contesto culturale intorno, erano i protagonisti.

Oggi si incontrano di nuovo, dalle parti dei cinquanta, chi più chi meno, sul terrazzo dello stesso palazzo, di sera, d’inverno, in un freddo che è un po’ anche grande, facilmente con un bicchiere tra le mani, per un saluto finale a Mauro, che se ne è andato lentamente, e insieme all’improvviso, dopo essersi recluso in quello spazio surreale ma anche simbolico: la sua reggia e la sua tomba, il «suo monumento funebre», la sua isola nel mare del mondo e la sua gabbia che gli ha impedito in fondo di incontrarlo. Un genio, dice di lui una del gruppo, uno che ci siamo cascati tutti, dice un’altra. Certamente uno che si è costruito il suo piccolo mondo fuori dal mondo, e lo ha esteso ad altri a lui vicini. «Qui dentro puoi fare quello che vuoi», dice oggi a Rocco, stizzita, frustrata, perché Rocco non ascolta, quella che dovrebbe essere la sua insegnante di canto: «tanto non ti vede nessuno». E può essere una scelta, con relativo prezzo da pagare, che allargando il caso umano singolo di Rocco, tutti possiamo avere come opzione. E si può decidere se diventare grandi, anche facendoci giudicare, rischiando tutto, facendoci dire se l’immagine che avevamo di noi è compatibile con la realtà, oppure no, e questo quesito esistenziale carsico percorre, non in solitudine, questo film corale ma anche no, in cui le persone un po’ sono ma un po’ paiono anche continuare a mettersi in scena. Se ne fa tema, insieme alla relazione umana inevitabile tra gruppo e leader, e insieme a quello, intimamente connesso al tema dell’espressione, dell’ossessione, necessità, prigionia, del sognare: di lasciarsi portare via dal desiderio di essere, di raggiungere quel che ci piace, di abbandonarci a questa pulsione che può lasciarci nudi, alla lunga, nel viaggio della vita. Dove nudi vuol dire soli, acciaccatti, smarriti.

Sono riflessioni che lentamente si affacciano, che prendono aspramente forma, fastidiosamente e con sollievo, avanzando nella visione de Il palazzo, fatto di spazi che Federica Di Giacomo lascia volontariamente aperti, da riempire, nel suo racconto dove uno spazio angusto è anche bellissimo, e diventa microcosmo, metafora, per parlare delle contraddizioni e delle imperfezioni che avvolgono la vita umana, della difficoltà di capire fino in fondo, dentro le sfumature dell’esistenza, chi ha ragione e chi no. Cosa è la libertà e cosa non lo è. Perché si, un porto sicuro, a nostra forma e misura, può essere peggiore di una brutta tempesta, ma la vita di Mauro è stata misera, sbagliata, sterile, oppure il contrario? Ha vissuto da Monarca, dice qualcuno, di lui, nel film. Liberamente o vittima del suo infantile narcisismo? Spunti, temi da svolgere, spazi da riempire, appunto, come il modo migliore di vivere la gioventù, questa Ferrari tra le mani di un bambino,  tempo amletico, da vivere di sogno, appunto, di piacere, oppure di ragionamento? Di pancia o di testa? Estate da cicale o da formiche? E infine all’arte, quanto, quanto è consentito, stare ai margini del mercato, della società, dell’industria, del mondo? Cosa rimane di lei e dell’artista, se l’incontro non avviene?

Insomma, nel suo incedere tra dramma e commedia, nel suo essere a tratti fastidioso e in altri tenero,  con le sue domande non nuove eppure sempre vive, sempre loro a presentarsi, offre qualcosa da pensare, ed è un suo merito, lo strano documentario di questa cineasta del reale ormai di medio corso, che già a Locarno, nel 2009, sorprese con Housing, e più di recente, nel 2015, convinse con Liberami vincendo nella sezione “Orizzonti” del Festival di Venezia.

In sala dal 16 marzo


Il palazzo  – Regia: Federica Di Giacomo; sceneggiatura: Federica Di Giacomo, Andrea Zvetkov Sanguigni; fotografia: Clarissa Cappellaniz Federica Di Giacomo; montaggio: Edoardo Morabito; interpreti: Mauro Fagioli, Rocco Purvetti, Alessandra Tosetto, Andrea Zvetkov Sanguigni, Francesca Duscià, Simone Vricella, Tiziana Della Rocca Osvaldo Kreinz, Virginia Zullo, Paola Biggio, Solomon Gortamaschwili; produzione: Dugong Films con Rai Cinema, co-produttore Jan Macola, co-produzione Mimesis Film con il contributo di Regione Lazio Lazio Cinema International; origine: Italia; durata: 100′; distribuzione: Dugong Films.

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