Il mio Rembrandt di Oeke Hoogendijk

  • Voto

Nella maestosa e desolata tenuta di un duca scozzese, un’anziana donna in abito monacale sfoglia le pagine di un libro che sembra illuminarsi di luce propria. A qualche chilometro di distanza, più giù, sulle sponde del Continente, il mecenate e collezionista d’arte olandese Jan Six osserva sardonico i propri eredi fra le mura domestiche, nascondendo nella redingote una cascata di riccioli rossi che appartennero soltanto a lui.

Pochi isolati più in là vive un’intera popolazione di bozzetti, acqueforti e bizzarri personaggi in chiaroscuro, vezzeggiati e tenuti in ostaggio da chi, per quei volti, sembra nutrire una vera ossessione. Nel frattempo, le Fiandre si spostano in Francia – e, più precisamente, nella Capitale del Bello par excellence: a Parigi, dicevamo, il barone Rotschild cresce e gioca fra le amorevoli braccia di Marten e Oopjen, padre e madre putativi di una dimora tutta quadri, sculture e arabeschi. Ma fra le ombre della Ville Lumière e i pomeriggi abbacinanti di Dubai viaggiano altrettante maschere, immerse nelle loro trine e impegnate a proteggersi dalle mani rapaci di avidi cultori.

I reali protagonisti del nuovo docufilm targato Oeke Hoogendijk sono, difatti e di fatto, scomparsi da più di quattro secoli – eppure, la loro presenza è ancora tangibile attraverso le cornici che li custodiscono e li racchiudono in uno spazio senza spazio, o in un tempo senza tempo. Il regista, reduce da un viaggio chiamato The Holocaust Experience (2002) attraverso mete proibite (i cosiddetti Musei dell’Olocausto), ritorna qui al suo primo, grande amore: Rembrandt Harmenszoon van Rijn – o, per gli amici, Rembrandt. Il paesaggio cinematografico è qui scandito dalle sue opere, o meglio, dall’animo umano celatosi nei colletti inamidati e nei gesti impulsivi che il ritrattista sapeva cogliere con tanta precisione. Attraverso il lascito del celeberrimo pittore e incisore, dunque, scopriamo qualcosa in più sulla nostra civiltà.

Lo sguardo della cinepresa, fioco e intimista come quello che domina la tela, si sposta dal Seicento al vituperatissimo Terzo Millennio, abbozzando nuove fotografie: quella, ad esempio, del Duca di Buccleuch, ultimo discendente di una storia avventurosa in cui ricchezza e povertà celebrano il loro sposalizio davanti agli occhi di un’anziana donna in abito monacale – per intenderci, la Old Woman Reading (1655) dell’incipit. Il dipinto del Maestro olandese, infatti, troneggia fra i salotti scuri della tenuta, osservando la quotidianità dispiegarsi e tenendo compagnia, nelle grigie nottate di Scozia, al suo stravagante coinquilino.

Intanto ad Amsterdam, sulle sponde del Continente, l’enfant terrible Jan Six Il Giovane (o, se vogliamo essere pignoli, l’undicesimo rampollo della gloriosa dinastia) si diverte a stanare Rembrandt dai suoi nascondigli segreti, scoprendone il marchio sotto le spoglie di un Cristo, o nell’enigmatico sorriso di un Gentiluomo ancora sconosciuto. Proprio questo misterioso Young Gentleman (1635), incontrato per caso ad un’asta e attribuito erroneamente ad un anonimo emulatore, condurrà il mecenate fra le luci ombratili della ribalta, separando destini fino a quel momento inseparabili. La smania d’indipendenza, l’ambizione a tratti selvaggia, l’istinto feroce e visionario elargiscono a Jan Six XI “proporzioni shakespeariane”, trasformandolo nell’ambiguo eroe di un dramma romantico e spingendolo infine ad emanciparsi dal mentore idealista Ernst van de Wetering.

Le leggi del mercato, perfino nel campo dell’arte, sono spietate e ruotano attorno al Dio Denaro – un Dio non certo estraneo a Rembrandt stesso, il quale possedeva un carattere a dir poco litigioso, una naturale propensione all’accumulo compulsivo, nonché l’indomita tendenza a dilapidare le proprie fortune. Così, Oeke Hoogendijk ci trasporta nell’infernale giungla del collezionismo, dove il materialismo illuminato di Thomas Kaplan incontra la malinconia di Eric de Rotschild, costretto a mettere in vendita per mere ragioni fiscali le effigi a grandezza naturale di Marten e Oopjen (1634), padre e madre putativi del suo piccolo mondo tutto quadri e arabeschi. Ed è allora, solo allora, che il parlar d’arte si fa parlar di cifre: 160 milioni è il prezzo che il banchiere mette sul tavolo delle trattative, sfidando Louvre e Rijksmuseum a sottrargli i due coniugi su tela. Ne verrà fuori un caso politico e la coppia immortalata dal Maestro di Amsterdam rischierà di essere separata per sempre.

Di fronte a colte disquisizioni su pizzi e merletti, a occhi stralunati, a numeri, a inutili querelle legali e mediatiche, i volti di Rembrandt sogghignano estranei, ritirandosi in un silenzio che è il loro e che non è più il nostro – ma che forse si può ancora toccare con mano, magari fra i corridoi di una magione scozzese in cui vive un’anziana lettrice in abito monacale.

Il lungometraggio segue un percorso concentrico, involuto, aprendo innumerevoli finestre senza richiuderne nessuna e lasciando che la commedia umana tracciata dalla sceneggiatura continui a schiamazzare nella propria solitudine. L’ultima scena, non a caso, ci riporta chez nous, ovvero nel castello di Buccleuch e, in particolare, di fronte ad un’ermetica old lady ritratta da Rembrandt per l’unico scopo che sembra esserle consono: quello, per l’appunto, di sfogliare un vecchio tomo illuminato.

In sala il 6-7-8 giugno


Cast & Credits

Il mio Rembrandt  (Mijn Rembrandt) – Regia: Oeke Hoogendijk; sceneggiatura: Oeke Hoogendijk; fotografia: Gregor Meerman, Sander Snoep; montaggio: Boudewijn Koole, Gys Zevenbergen; interpreti: Jan Six, Éric de Rothschild, Taco Dibbits, Duke of Buccleuch, Eric de Rothschild, Thomas S. Kaplan, Martin Bilj, Eijk De Mol van Otterloo, Ernst van de Wetering, Rose-Marie De Mol van Otterloo; produzione: Discours Film; origine: Olanda 2019; durata: 97’; distribuzione: Nexo Digital.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *