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Voto
La cura dei propri genitori ad un certo punto della vita diventa un passaggio necessario da attraversare. Può accadere in maniera graduale e parziale oppure, nel caso di figli unici, in maniera improvvisa e totalizzante. Alex e Noémie sono una giovane coppia che si ama. Li vediamo parlare con un qualche medico, ginecologo forse, riguardo alla possibilità di avere un bambino. Sono buffi, finiscono a discutere di posizioni sessuali, c’è una forte affinità complice tra i due. Nella loro vita è presente Suzanne, la madre di lui, un’attiva signora dai capelli rossi che compra materassi in regalo per il trentacinquesimo compleanno del figlio, ha un piglio deciso, ascolta Le quattro stagioni di Vivaldi ad alto volume nella sua macchina rossa che parcheggia sotto casa della coppia nel parcheggio per disabili. Ha una galleria d’arte, espone le opere di un’artista che lavora con delle immagini che simulano i processi di movimento delle stelle (saranno queste immagini in evoluzione graduale – ipnotica e allusiva – a punteggiare il film).
Da piccole cose che non tornano – avere tanti conti in banca, rubare un accendino in un negozio, non ricordare la sequenza di parole che una neurologa le chiede di ripetere – a Susan viene diagnosticata una demenza semantica, una malattia degenerativa che altera i comportamenti. Con delicatezza Alex comincia a prendersi cura della madre che, man mano, diviene sempre più ingestibile: scatti di euforia, ripetizione delle richieste, fughe notturne alla ricerca dell’automobile che terminano nella cucina dei vicini di casa a mangiare pane e marmellata alla luce del frigorifero aperto.

Alex prende un badante a vivere con sua madre ma più passa il tempo più la situazione diviene difficile. Noémie è dolce, affezionata alla suocera, paziente: fotografa la donna che, con foga e allegria, sta lavando il cofano della vettura rossa tanto amata che non può più guidare. Ma l’atto di fotografare una persona che sta male per Alex è una mancanza di tatto, per Noémie fermare un istante di gioia nel dolore. I ragazzi si trovano distanti, la malattia degenera velocemente, Alex chiede tempo per stabilizzare la crisi, la giovane lo mette davanti alla realtà: questa non è una parentesi, è la vita. La ragazza prende tempo e si allontana. La vita vera continua. Quanto ci si può annullare dentro l’esistenza di un altro, sebbene sia la propria amata madre? Quanto l’avvicinarsi della morte può interrompere l’urgenza prepotente della vita?
La regia è sapiente, il realismo – violento nella tematica – viene stemperato da una scelta formale spiazzante e visivamente potente, la recitazione è perfetta, Jo Deseure nel ruolo della madre è assolutamente calzante, di bravura elegante, la sceneggiatura è molto originale, calibrata in ogni battuta, in ogni parola.
Un film raro nella sua compostezza formale misurata, bilanciata, eccellente: una bomba per animi delicati.
In sala dal 29 giugno
La folle vita (Une vie démente) – Regia: ; Raphaël Balboni, Ann Sirot; sceneggiatura: Raphaël Balboni, Ann Sirot; fotografia: Jorge Piquer Rodriguez; montaggio: Raphaël Balboni, Sophie Vercruysse; interpreti: Jo Deseure, Jean Le Peltier, Lucie Debay, Gilles Remiche, Vincent Lecuyer, Joëlle Franco, Annette Gatta, Estelle Marion, Marie Henry; produzione: Hélicotronc, L’oeil-Tambour, Région de Bruxelles-Capitale; origine: Belgio, 2020; durata: 87 minuti; distribuzione: Wanted Cinema.
