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Voto
Dopo quattro anni di silenzio, Paul Schrader ritorna a Venezia – e lo fa con un romanzo dalle tinte talmente fosche da risultare abbacinanti: The Card Counter (in italiano Il collezionista di carte, un titolo insensato e fuorviante), infatti, è il più recente prodotto dell’ormai rodatissima collaborazione fra il regista e Martin Scorsese, qui immortalato nelle vesti di produttore esecutivo, nonché di grande e onnisciente demiurgo. Seguendo gli usi e i costumi di uno sguardo maturato sulle vertiginose scale di Taxi Driver, Schrader riporta alla luce ciò che giace nell’abisso, mettendo in scena le connivenze clandestine disperse in un limbo fra l’accettabile e l’inaccettabile.
L’intera opera pare giacere in una sorta di antinferno febbricitante, claustrofobico, impenetrabile – così come impenetrabili sono i suoi condannati. Fra di essi, spicca l’ex carceriere di Abu Ghraib William Tell (un Oscar Isaac dal volto rigido e che presto rivedremo anche in Dune), vittima e carnefice del suo stesso dramma. È lui il nostro protagonista: di più non è dato sapere. Perfino il nome, trafugato al leggendario eroe svizzero, non è che una maschera, l’Asso di picche elargito allo spettatore in cattedra.
Schrader, dunque, si limita ad abbozzare i lineamenti della sua creatura, mostrandole talvolta più indulgenza del dovuto e preservandola dai continui interrogatori a cui il grande schermo la sottopone, dalla curiosità morbosa e voyeuristica di chi, alla parola tortura, si copre gli occhi ma tiene aperte le orecchie. Un fenomeno noto sotto il nome di effetto Lucifero, termine coniato nell’ormai lontano 2004 dal sociologo Philip Zimbardo in seguito alla diffusione sul rotocalco statunitense 60 Minutes delle fotografie ritraenti gli aguzzini di Abu Ghraib insieme ai prigionieri orrendamente seviziati.
La cinepresa conosce bene il genere umano e decide di svelare la trama muovendosi con una lentezza tanto estenuata quanto priva d’empatia, procedendo a balzi discontinui, trastullandosi con il nauseato interesse che il pubblico manifesta davanti all’efferatezza. La trama segue una cornice dai contorni minimali, salvo poi perdersi in vertiginosi flashback e in digressioni di una brutalità maliziosamente esaustiva. Condannato a dieci anni per violazione dei diritti umani e rinchiuso in un carcere militare di massima sicurezza, Tell impara a contare le carte. Una volta saldato il suo debito con i sacri comandamenti della morale pubblica, il soldato si trasforma in giocatore d’azzardo e vaga di casinò in casinò racimolando lo stretto necessario alla sopravvivenza personale.
Contrariamente a quanto si potrebbe intuire dall’incipit, per William il poker non è affatto una distrazione, né il disperato tentativo di rimuovere un passato ingombrante, quanto piuttosto un cinico soggiacere alla propria natura – o all’identità assegnatagli dai suoi superiori. Alla base di ogni azzardo c’è, del resto, una strategia fondata sull’attesa e sulla perseveranza – che sono poi i segni sotto cui l’uomo nasconde la proverbiale ferinità. Ogni movimento, si dice, deve essere pianificato con cognizione di causa, ogni gesto deve seguire un movente destinato a rimanere sotteso. Questa la regola alla quale nessun giocatore professionista può sottrarsi: vince solo chi si mantiene sospeso fra la completa immedesimazione nell’avversario e l’impassibile annientamento di quest’ultimo.
Il regista ci esibisce tutte le figurine del grande solitario chiamato America, sfogliando regine, fanti e re: così entrano in scena l’esuberante finanziatrice La Linda (Tiffany Haddish) e il pedagogo del male John Gordo (Willem Dafoe), vecchio maggiore rimasto impunito, nonché principale responsabile dell’agghiacciante scuola di tortura innestatasi a Bagram. A completare il quadro è Cirk con la C (Tye Sheridan), l’Innocente per antonomasia, il jolly del mazzo, la matta pronta a detonare la partita. Figlio di un altro torturatore morto suicida, il giovane si unirà a Tell in cerca di vendetta, dimostrando un sangue freddo insospettabilmente celato fino all’ultima inquadratura. Nessuno, fra i personaggi citati, possiede un nome, preferendo coprirsi dietro ad uno pseudonimo da marionetta e alla parabola della sua esistenza, quasi si trattasse di recitare un ruolo a dir poco scomodo. I suburbi saturati e magniloquenti che l’autore dipinge ci aiutano a sprofondare nelle idiosincrasie della civiltà occidentale – scoprendo, fra l’altro, disturbanti abitudini come quella di William, intento a ricoprire i mobili di un sudario candido e asettico così come si fa con i ricordi malati e stantii.
La svolta finale non rappresenta affatto l’imprevisto che ogni puntata racchiude, né Tell diventa giustiziere: le pedine si limitano a giocare sulla scacchiera e l’ex marines finisce per soggiacere, ancora una volta, ai principi insegnatigli dal suo Maestro. Così, in un sol colpo si sprigiona tutta la ferocia accumulatasi nel corso del film, ammassatasi dietro alla superficie perfettamente sterilizzata delle sale slot, delle prigioni, dei motel, delle enormi celle in cui apatia e adrenalina rendono onore all’uomo e a ciò che quest’ultimo potrebbe diventare.
In sala dal 3 settembre
Cast & Credits
The Card Counter – Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia: Alexander Dynan; montaggio: Benjamin Rodriguez Jr.; interpreti: Oscar Isaac (William Tell), Tiffany Haddish (La Linda), Tye Sheridan (Cirk), Willem Dafoe (maggiore John Gordo); produzione: Saturn Streaming, Astrakan Film AB, RedLine Entertainment; origine: USA 2021; durata: 112’.
