A Complete Unknown di James Mangold

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Chissà se Bob Dylan ha mai desiderato essere veramente A Complete Unknown, un  completo sconosciuto, come recita il verso di una delle sue canzoni più famose, Like a rolling stone, e il nome del film biografico  in uscita che James Mangold gli ha dedicato, dopo aver già raccontato, ormai venti anni fa, la storia di un’altra figura iconica della musica folk e rock statunitense, Johnny Cash, rappresentato anch’egli  da un titolo che riecheggiava  un suo brano, Walk The line. Probabilmente l’anonimato non è mai stata una situazione nella quale Mr. all’anagrafe  Robert Zimmerman  è voluto rimanere a lungo, visto che quasi immediatamente si è messo in una luce a parte sulla scena del cantautorato newyorkese. E Mangold lo presenta così fin dall’inizio,  con una personalità artistica ed umana, e il carisma che ne consegue, già formata più per ispirazione e talento, che per un chissà quale antecedente e disciplinato studio della musica al quale non viene fatto cenno o riferimento, come del resto a nient’altro del passato e dell’identità di quel ragazzo con la chitarra, gli occhiali da sole e un’espressione persa a metà della strada tra l’’intersecarsi tra la posa meditativa e quella indolente. Ci troviamo di fronte al Bob Dylan che sta per essere  visto e ascoltato da qualcuno che ne è stato inconsapevolmente e indirettamente  il mentore, il padre putativo, il referente simbolico dal punto di vista musicale e politico, e struggente e affettivo da quello personale. La prima cosa che fa Dylan arrivato a New York è infatti chiedere dove si trovi Woody Guthrie e recarsi all’ospedale nel quale è ricoverato,  in quel momento, i primi anni Sessanta, leggendario cantore folklorista e interprete blues in senso lato, vista talvolta  la predominanza  e l’urgenza delle parole sulle note, di un’umanità emarginata, dimenticata, sfruttata, sostenuta dalla voce/afflato del proprio farsi e riconoscersi in una comunità . E davanti a quell’uomo ridotto al semi mutismo da una  logorante malattia neurologica,  l’esordiente ragazzino canterà  un brano a lui dedicato, che ne è la celebrazione e l’elegia, l’introduzione ed il commiato. Negli occhi ancora vivi e luminosi di Guthrie si legge allora uno spiraglio di consapevolezza per aver compreso, nella speculare lettura della sua parabola, quella dell’alter ego più giovane eppure tanto intensamente e comunicativamente portatore in emersione di quel mondo di oppressi e dimenticati, di disadattati e insofferenti rispetto alle norme e agli status symbol della società capitalista e industriale, come di quella dello spettacolo. Si tratta di una delle scene più belle e toccanti, la rappresentazione di una performance, come ce ne saranno molte altre  durante l’arco del racconto: riproduzioni di esibizioni live iconiche e memorabili e riferimenti “non puramente casuali” a fatti realmente accaduti, capaci di esprimere, con un’ efficacia e una forza espressiva assai maggiore dei dialoghi e della descrizione di contesti e situazioni,  il senso della prima uscita pubblica del futuro premio Nobel per la letteratura, e la propulsione del passaggio traumatico dalla natura acustica del suono folk alla dimensione elettrica dell’estetica rock.

Timothée Chalamet

In mezzo a questo mutamento audiovisivo di immagine e sonoro,  che ne avrebbero potuto fare magari l’impressionistico romanzo di formazione di una figura ormai mitizzata da un  immaginario collettivo plurigenerazionale, si inseriscono gli inserti parlati e narrati dei suoi inquieti  crocevia sentimentali e relazionali: la prima importante fidanzata Sylvie Russo e l’inizio della lunga collaborazione artistica, dopo una burrascosa parentesi amorosa, con Joan Baez, ma anche i rapporti tesi e conflittuali con i discografici, gli organizzatori di festival, i manager e il pubblico stesso; intrecci  nel solco convenzionale del più convenzionale biopic hollywoodiano, che ha la necessità, prevedendo che sia anche quella della grande quantità di pubblico a cui vuole arrivare, di far capire, sottolineare ed evidenziare i passaggi, specie quando, come in questo caso, la cesura tra un prima e  un dopo, tra un inizio e un continuo, è  parte sostanziale della struttura del film, il suo asse portante (tutt’ altra strada rispetto alla destrutturazione e trasfigurazione metaforica in frammenti identitari dell’altmaniano Io non sono qui di Todd Haynes).

E comunque di idee, sviluppate con intelligenza e acutezza nella sceneggiatura scritta da Mangold assieme a Jay Cocks, abituale collaboratore di Martin Scorsese, ce ne sono e lasciano anche  il segno. Basti ritornare alla prima sequenza citata tra Guthrie e Dylan, alla quale assiste un altro cantautore di quella factory, Pete Seeger, amico accudente del Woody in declino e manager paterno del Bob in ascesa , sicuramente meno osannato e acclamato rispetto a quello che era stato l’uno e ciò che diventerà l’altro. Un personaggio apparentemente in minore, peraltro tradizionalista e pavido, nonostante in una delle prime scene in cui appare rivendichi davanti a un tribunale  il diritto di cantare la possibile controversa frase di un brano scritto proprio da Guthrie (appellandosi però più ad un alternativo senso di patria che alle implicazioni eversive di un coinvolgimento da residuale caccia alle streghe con il partito comunista), che però attraversa e incrocia la vita del giovane Dylan come una sorta di caldo, riflessivo, pacato controcanto alla rabbia introversa e iconoclasta dell’autore di Blowin in the wind. Specularmente la Baez sembra essere invece l’alter ego femminile di quest’ultimo, cosi scostante e avulsa dalla parata autocelebrativa e autografata del red carpet, per quanto entusiasticamente richiesti dagli anonimi ragazzini tra le strade notturne e polverose del Village; severa e parca nel look e nelle parole, al di fuori dalla scena e dalla musica cantata e suonata, è come se contenesse in sé, nel volto antico e corvino, la voce/sguardo/coscienza di un intero coro greco, chiamato a commentare, anche semplicemente  con il silenzio e la presenza, le gesta contraddittorie e destabilizzanti un mondo, un suono e un’attitudine del suo e nostro Bob (il quale a sua volta è teso caparbiamente a dimostrare di non appartenere a nessuna definizione, etichetta, comunità).

Assieme al corpus performativo della prima fase dell’opera dylaniana , scadenzato nelle partecipazioni tra il 1963 e il 1965 (quest’ultima con la famosa e turbolenta contestazione da parte di pubblico e organizzatori alla svolta elettrica) al Newport Folk Festival,  riprese  con l’avvolgente e sensoriale partecipazione di un vero film concerto, il meglio viene dal controcampo di queste conosciute faces in dissonanza e/o  in sintonia  ad una personalità generosa e narcisista, coinvolta ed evanescente, ribelle contro le regole e le formule del music business  e anche attratta, forse,  dall’incremento del successo che un più vasto pubblico, non più quello in carne e ossa delle prime file  di una manifestazione locale ma la platea completamente sconosciuta delle classifiche da Billboard, potrebbe garantirle. Non c’è giudizio ma neanche accondiscendenza, nonostante Dylan stia tra i produttori esecutivi, ma il tono programmatico, esemplificativo, didascalico di alcuni scambi  (“Vuoi essere così come ?”, gli chiede un musicista conosciuto ad una festa e che diventerà uno dei componenti della sua prima band, “Come qualsiasi cosa non vogliono che io sia”, risponde Bob) abbassa tutto su un tono più piatto, medio, non vibrante. Esattamente come il film su Cash, che qui compare in maniera un po’ forzata e funzionale per incitare Bob alla ribellione, è il flusso spontaneo e strabordante  delle performance a portare in un altrove in progress e sorprendente  la staticità a tratti abusata e paludata della narrazione. Uno slittamento evidente nella resa delle interpretazioni del pur eccellente cast: Timothée Chalamet, a tratti un po’ troppo mimetico nella vocalità /gestualità e, per evitare l’eccesso, con il rischio di scadere in una monotonia espressiva, si riscatta nella magnetica presenza scenica delle esecuzioni di brani dei quali riesce a sostenere il leggendario peso specifico; Edward Norton, che fa Seeger con la sottile sfumatura di frustrazione per il fatto di essere tra i partecipanti e non tra i protagonisti di questa storia (contrappuntando la troppa passività e magnanimità); infine  la rivelazione Monica Barbaro, forse la migliore per come riesce a concentrare gli impeti umorali e gli slanci di tenerezza di Joan Baez, negli scarti pausali, nei respiri e negli sguardi tra una performance e l’altra, e tra il palco e il letto di una camera d’albergo.

Fessure nelle quali guardare per ritrovare la forza di un pietra che rotola o del vento che soffia…

In sala dal 23 gennaio 2025.


A Complete Unknown Regia: James Mangold; sceneggiatura : James Mangold, Jay Cocks; soggetto: Dylan Goes Electric! di Elijah Wald; fotografia: Phedon Papamichael; montaggio: Andrew Buckland, Scott Morris; interpreti: Timothée Chalamet, Monica Barbaro, Elle Fanning, Edward Norton, Boyd Holbrook, P.J. Byrne, Scoot McNairy ; produzione: Range Media Partners, Veritas Entertainment, The Picture Company, Turnpike Films; origine: USA, 2024; durata: 140 minuti; distribuzione: Walt Disney Italia.

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