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Voto
Presentato al Festival del cinema di Karlovy Vary, La solitudine dei non amati è l’esordio alla regia della regista norvegese Lilja Ingolfsdottir, che firma anche la sceneggiatura e il montaggio del film. Non stupisce ritrovare il nome di Thomas Robsahm, lo stesso produttore di Joachim Trier per La persona peggiore del mondo (2021) alla produzione di questo melodramma che ritrae una donna nel mezzo di una crisi familiare. Sì, perché per quanto i due film siano diversi vi ritroviamo, comunque, non poche analogie. E sarà per l’atmosfera della città di Oslo ma allo stesso modo, durante la visione, tornano alla mente i più recenti film usciti in sala della trilogia (Sex- Love – Dreams) di un altro ottimo regista norvegese, Dag Johan Haugerud, vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale di quest’anno con l’ultimo capitolo Dreams. Più in generale la regista si riallaccia alla tradizione cinematografica nordica ricercando con l’introspezione psicologica d’influenza bergmaniana di descrivere la sua protagonista a tutto tondo, ma soprattutto in profondità e, riprendendo dilemmi, conversazioni e incomprensioni esistenziali fra i pochi personaggi in scena sembra voler omaggiare anche il cinema di una attrice-regista molto vicina al maestro svedese, Liv Ullmann.
Maria (Helga Guran) nonostante il doloroso divorzio dal primo marito e due figli a carico, ha progetti per una futura carriera professionale, quando ad una festa si ritrova davanti Sigmund (Oddgeir Thune). Per lei è amore a prima vista. Mentre non è la stessa cosa per lui che, se da principio nemmeno la nota, è pure ritroso a lasciarsi conquistare. La donna allora dà inizio ad una vera caccia all’uomo pur di averlo. Comunque sia, i due diventano in poco tempo una coppia affiatata e Maria si ritrova inevitabilmente incinta.

Sette anni dopo le cose sono molto cambiate: Maria è spesso lasciata sola ad occuparsi dell’estesa famiglia: di questa fanno parte i due figli adolescenti avuti dal precedente matrimonio che, poco disposti ad aiutarla, le rinfacciano la sua mancanza di tempo; e due bambini ancora piccoli, nati dalla relazione con Sigmund da accudire, che la esauriscono. Inutile a dirsi, la situazione non può durare a lungo. E nemmeno Maria. Quando il marito torna stanco ma soddisfatto dai lunghi viaggi lavorativi durati settimane, Maria si sforza di mostrarsi altrettanto contenta, ma ci riesce solo per un breve e poco appassionato saluto, poi, l’amarezza e il risentimento hanno la meglio. Durante l’ultimo ed ennesimo litigio gli rinfaccia la sua lontananza e il non rispettare l’equa divisione delle mansioni familiari. Anche lei, come già fa lui, vorrebbe potersi prendere i suoi spazi e i suoi tempi per proseguire nella carriera. Sigmund reagisce con freddezza e le consiglia di mettersi in terapia per i suoi sbotti di rabbia. Maria decide allora di trasferirsi nell’appartamento di un’amica per riflettere sul da farsi e riesce con fatica a convincerlo ad iniziare una terapia di coppia. Alla fine, sarà Maria, che insieme alla sua terapista (Heidi Gjermundsen) avvierà un processo di riflessione sui perché del suo atteggiamento aggressivo, volutamente distruttivo e dipendente da Sigmund, sui complessi traumi di abbandono e insoddisfazione derivati dalla difficile relazione con la madre (Elisabeth Sand) per capire questa sua incapacità di ‘dare’ amore agli altri. Il dramma si risolverà, anche troppo facilmente, quando la protagonista scoprirà che la causa di ogni suo problema affettivo nasce dalla mancanza d’amore per sé stessa.
L’accento della regista si concentra sulle figure femminili, mentre mette da parte o lascia appena accennate quelle maschili, tanto che di Sigmund – al quale, inspiegabilmente, vengono risparmiate qualsivoglia colpa o teoria di comportamento – veniamo a conoscere poco o niente, dell’ex marito ancora meno, e nemmeno del figlio, fratello di Alma, si parla mai. Forse per questo è proprio Sigmund (guarda caso il nome di Freud), in pratica l’unica figura maschile del film, che le consiglia di mettersi in terapia. L’introspezione profonda, il viaggio alla ricerca di sé stessa è solo della protagonista, aiutata in questo dalla vicinanza di altre due donne: l’amica e la terapista. E quindi vediamo Maria affrontare il disprezzo adolescenziale della figlia Alma (Maja Tothammer-Hruza) o l’incomprensione della madre ai suoi problemi personali. Entrambe, come Maria, desiderose di amore ma altrettanto incapaci di chiederlo e tanto meno di offrirlo. Verrebbe da chiedersi se la sofferta solitudine dei non amati del titolo sia causata solo da parte di madre e quindi riservata alle tre generazioni di donne che vivono in una famiglia. Dopotutto anche il già citato Dreams di Haugerud ci riserva una visione familiare completamente al femminile, per quanto armonica e non conflittuale come ce la mostra Lilja Ingolfsdottir.

La solitudine dei non amati si apre e si chiude con un confronto, una riflessione allo specchio della protagonista con il suo io più inconscio. Il suo è un doloroso guardarsi dentro durato per tutto il corso del lungometraggio, visto che le prime scene non sono altro che il suo racconto alla terapista di come sia nato il suo legame con il marito, mentre le ultime sono parole di incoraggiamento e conforto rivolte a sé stessa. La sofferenza e l’isolamento di Maria durante la terapia sono accentuate visivamente dal suo muoversi irrequieta per le stanze dell’appartamento, dal suo abbandonarsi anche fisicamente: smette di pettinarsi e di truccarsi. E anche per questo viene criticata da Alma. Ma anche dai ripetuti tentativi di telefonare a casa, senza mai riuscire a comunicare con la famiglia.
Unico neo ad una vera comprensione del film è però in gran parte dovuto ad una traduzione italiana abbastanza sciatta dei dialoghi originali e voci prestate che faticano a restituire la naturalezza degli attori, così che alcune situazioni, alcuni dialoghi risultano poco chiari o superflui allo spettatore italiano. E forse, a causa di questa poca chiarezza nelle parole, il film ci è risultato discutibile, specialmente per la scelta di presentare sotto una luce negativa un bisogno legittimo, come quello di autorealizzazione della protagonista, e di trasformarlo in una colpa. Non può essere stata questa l’intenzione della regista.
In sala dal 30 aprile 2025.
La solitudine dei non amati (Elskling) – Regia, sceneggiatura e montaggio: Lilja Ingolfsdottir; fotografia: Øystein Mamen; interpreti: Helga Guren, Oddgeir Thune, Kyrre Haugen Sydness, Heidi Gjermundsen, Maja Tothammer-Hruza, Marte Magnusdotter Solem, Esrom Kidane, Aksel August Lenander-Lervik, Elisabeth Sand; produzione: Thomas Robsahm; origine: Norvegia, 2024; durata: 101 minuti; distribuzione: Wanted Cinema.
