Alpha di Julia Ducournau

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La lettera alfa accompagnata alla lettera omega segna nell’Apocalisse i termini del principio e della fine, simboli dell’eternità. Ed è appunto al suo di inizio, al tema del suo primo cortometraggio Junior (2011), che Julia Ducournau vincitrice della Palma d’Oro con Titane (2020) – la seconda donna regista a vincerla – è tornata, per scrivere la sceneggiatura del suo terzo film intitolato semplicemente come l’inizio biblico: Alpha.

Ed ancora, è una A maiuscola (che sta per Alpha) a dare inizio e a segnare l’avvio della storia. La grande lettera tatuata sull’avambraccio durante una festa di classe viene a sconvolgere la vita di Alpha (Mélissa Boros), una ragazzina tredicenne che vive con la madre (Golshifteh Farahani), medico virologo. Quando quest’ultima scopre il tatuaggio la manda subito a fare gli esami del sangue. La sua paura è che la ragazza sia stata contagiata da un ago infetto e abbia contratto il terribile virus che imperversa, contagia per via ematica, trasforma il respiro in polvere e la carne umana in liscio marmo bianco. Ma c’è di più. Il tatuaggio risveglia anche ricordi ormai lontani di un grande amore fraterno: Amin (Tahar Rahim) lo zio di Alpha, eroinomane stanco di vivere e spesso a contatto con aghi e siringhe poco sicure. La notizia del possibile contagio di Alpha si sparge veloce anche a scuola e la ragazzina è costretta a subire le paure e le aggressioni delle compagne, fino all’isolamento in casa. Gli unici a dimostrarle comprensione sono il suo amico Adrien (Louai El Amrousy) e il suo professore d’inglese (Finnegan Oldfield).

Julia Ducournau sceglie di sviluppare la genesi della trama su due livelli di tempo diversi: uno appartenente alla memoria del passato, l’altro dieci anni più tardi: il primo ha luogo a fine anni Ottanta, quando la protagonista bambina una notte rimane da sola con lo zio Amin e si ritrova in balia della sua dipendenza. Sono gli anni in cui la madre assiste impotente i malati terminali ormai diventati di lucida e bianca pietra. Ma, se ha rinunciato a salvare i pazienti, non ha però rinunciato a salvare la vita del fratello e, ogni volta che questo entra in overdose insiste, quasi si accanisce, su di lui per riportarlo in vita. Poi c’è il tempo in cui Alpha, adolescente, bullizzata dalle compagne di scuola, ha la sua prima esperienza sessuale; mentre a casa è costretta, per problemi di spazio, a dividere sia l’affetto della madre, sia la sua camera da letto con lo zio Amin, e involontariamente anche la sua fragile e sofferta esistenza di tossico.

Mélissa Boros

In Alpha tutto trasuda di una potente atmosfera biblica, mitica e primigenia. A partire dai caratteri cubitali maiuscoli ed antichi del titolo, scritti come crepe sull’arsa terra rossa. Vi contribuiscono inoltre la magnifica musica scelta da Jim Williams e le scenografie di Emmanuelle Duplay, che ha curato anche quella di Dossier 137, pure presentato a Cannes. Una breve nota è doverosa per le statue in pietra dei contagiati nel loro stadio finale che risaltano per la loro antica e classica bellezza scultorea, ricca del patrimonio estetico di Canova o di Michelangelo, di un marmo che ha ancora la plasticità della carne, la forza del movimento, la sofferenza del dolore fisico. E poi c’è il mistero attorno ad una leggenda, una credenza della nonna algerina a diventare fulcro portante della narrazione. Secondo la leggenda esiste un arido vento rosso che può far ammalare e seccare i corpi umani, e quindi questi ultimi hanno bisogno di venire continuamente bagnati con l’acqua, quasi fossero delle piante senza radici e l’acqua un antidoto contro il divenire polvere. Il film ci riporta agli anni in cui un’altra, ma spesso dimenticata pandemia, l’AIDS, a causa del virus HIV, prima di quella da Covid, provocava altrettante morti e spaventava forse in egual misura. Alpha e la madre, come tutti i protagonisti di questo film e più in generale del cinema di Ducournau, sono tragiche figure eroiche che fin dall’inizio si pongono un compito sovrumano e per questo senza minima speranza di riuscita. Sono entrambe decise con il loro amore a salvare Amin, anche se l’unica delle due a riuscire a creare un vero legame è la nipote. Entrambe poi, a differenza di chi sta loro accanto, non provano ripugnanza per i contagiati e non si mostrano spaventate per la vicinanza fisica del virus.

Per quanto ermetica si possa presentare la visione di Alpha, e un tocco di mistero è necessario per creare quel clima di mito di cui il film vive, le chiavi per decifrarla sono tutte nella storia e specialmente nella lettura che l’insegnante di inglese fa della poesia Un sogno dentro un sogno di Edgar Allan Poe. Proprio Alpha, interrogata durante l’ora di lezione, interpreta il tema della citata poesia dal poeta francese come incubo. Così nel film, come solo negli incubi, le impalcature tremano, i soffitti si abbassano, i corpi si sgretolano in sabbia. Così qualche volta succede che pure la realtà possa trasformarsi in un incubo, quello appunto della dipendenza dalle droghe. Un incubo ad occhi aperti che vivono non solo i diretti interessati ma anche chi li ama, vive e percepisce insieme a loro lo stesso dramma, la stessa sofferenza. Armin, Alpha e la madre sono quindi personaggi moderni ma, come dicevamo, nobilitati dal pathos antico ed elevati al pari di figure della tragedia greca, condannati o a compiere grandi imprese, oppure a perire. La potenza e la forza della narrazione di Ducournau è tutta nella sua maestria di trovare l’aspetto mitico dentro il nostro quotidiano e, grazie a poche scelte visive e di ripresa, innalzare una semplice storia da coming-of-age in un’impresa titanica.

In Concorso al Festival di Cannes 2025
In sala dal 18 settembre.


Alpha:  – Regia e sceneggiatura: Julia Ducournau; fotografia: Ruben Impens; montaggio: Jean-Christophe Bouzy; musiche: Jim Williams; scenografia: Emmanuelle Duplay; interpreti: Golshifteh Farahani, Tahar Rahim, Mélissa Boros, Emma Mackey, Finnegan Oldfield, Louai El Amrousy; produzione: Petit Film, Mandarin & Compagnie, France 3 Cinéma, Frakas Productions; origine: Francia/Belgio 2025; durata: 128 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

 

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