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«È vita questa?» urla una madre gazawi davanti alla sua casa scoperchiata da un’esplosione. Le abitazioni dei palestinesi sono senza tetto, le loro esistenze private ormai della memoria, tanto le esplosioni e i lutti si succedono in un eterno ritorno dell’uguale. È questo che Kamal Aljafari sembra volerci dire, fin dal suo primo lungometraggio, The Roof (2007), racconto autobiografico di un’infanzia trascorsa in una casa senza tetto. Ma qui una sensazione strana attraversa quelle immagini: il fatto che il materiale risalga al 2001 impone un’evidenza che forse non era così cristallina all’epoca delle riprese, filtrata com’è dalla nostra conoscenza dell’apice di devastazione omicida a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni.
L’autore di queste riprese è lo stesso Aljafari, il quale non ricordava neanche di averle filmate. Era il primo, lui, a non cogliere in quelle immagini un’evidenza. Immagini intatte, riproposte come dei ready-made, il cui senso emerge solo attraverso l’operazione artistica di riattualizzazione. Questo riposizionamento temporale, che conta sulla credenza dello spettatore in un’attinenza diretta con il presente disastro, crea un cortocircuito temporale che è, in fondo, la condizione stessa dell’essere palestinese negli ultimi ottant’anni: vivere in un terreno frastagliato di epoche sovrapposte, come lo stesso regista, che, mentre Gaza viene definitivamente ridotta a un cumulo di macerie, monta questo film in cui, durante la Seconda Intifada, si mette alla ricerca di un compagno di cella della Prima (1989).
In questa visita alla città, il regista, già al tempo residente da anni in Germania, si affida alla guida di Hasan per attraversare i diversi strati geografici di Gaza: dalla zona industriale, dove la città si confonde con ogni altra metropoli araba, dove l’incessante traffico sembra promettere una libertà di movimento, fino all’insediamento di Khan Yunis costantemente presidiato dalla milizia israeliana dove è impossibile fuggire e i bombardamenti sono all’ordine del giorno. Come saggiamente intuito dal Direttore del “Festival dei Popoli”, Alessandro Stellino, questo doloroso pellegrinaggio assume toni danteschi: una discesa nei gironi dell’occupazione accompagnati da un novello Virgilio, per acquisire quella consapevolezza che solo oggi si rivela in tutta la sua chiarezza.
L’ex detenuto Aljafari va alla ricerca di un compagno di cella, e qualcuno trova: un padre di famiglia che, dopo otto anni di detenzione, ritrova i figli, ormai cresciuti. Anche qui, la dimensione temporale aggiunge strati di significato: su quella famiglia grava un destino di separazione che sembra ineluttabilmente legarli, destinandoli, come tutto il popolo palestinese, a una condizione di perpetua lacerazione. Ciò che questi ex detenuti trovano, in fondo, è un’altra prigione, una prigione da cui è impossibile evadere. Il film assume i contorni di una visita carceraria: i tempi e gli spazi sono costantemente disciplinati, e è proprio questa sensazione di sorveglianza perenne ad aleggiare su ogni immagine, creando la claustrofobica tensione di questo improvvisato thriller.

Alla fine, questa investigazione è condannata ad andare a vuoto, non solo perché il ricercato non si trova, ma perché, in un certo senso, tutti i palestinesi rischiano di essere scomparsi, sono già spettri di un altro mondo, di un’altra Gaza. In queste immagini del 2001 aleggiano già gli spettri delle future macerie. C’è una certa innocenza nel gesto di riproporre immagini crude, solo qua e là contrappuntate da un intervento sonoro finzionale. La straniante dissonanza di questi suoni serve a precipitarci ancora più a fondo in un mondo spettrale, dove riconoscere i fantasmi di ieri e di oggi.
Un’innocenza ben rappresentata dai bambini che giocano davanti alla mini-DV, che chiedono di essere ripresi nelle loro performance, proprio come i coetanei occidentali di oggi su TikTok. Ma per loro, la questione dell’immagine è davvero esistenziale: è come se fosse l’unica possibilità per affermare di esistere. Sono bambini di cui ignoriamo la fine, ma sul cui destino incombe un’ombra tragica. Mostrare con innocenza significa per Aljafari tornare a credere nell’evidenza, nella verità dell’immagine. Un compito pericoloso ma necessario, per chi ancora crede nel potere sovversivo del cinema al servizio della resistenza di un popolo.
In anteprima italiana al “Festival dei Popoli” (Film d’apertura – Vincitore del Concorso Internazionale)
With Hasan in Gaza – Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Kamal Aljafari; suono: Kamal Aljafari, Jochen Jezussek; musica: Simon Fisher Turner, Attila Faravelli; post-produzione: Yannig Willmann; produzione: Kamal Aljafari per Kamal Aljafari Productions, Flavia Mazzarino; origine: Germania/Palestina/ Francia/ Qatar, 2025; durata: 106 minuti.
