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Stefano Chiantini continua a scandagliare dall’interno i micromovimenti e le grandi fratture che possono attraversare i legami familiari. Dopo aver affrontato la questione delle genitorialità come vocazione, sentimento, vicinanza fisica ed emotiva nei suoi ultimi due film, Una madre e Come due gocce d’acqua, in Separazioni va a focalizzarsi su un nucleo fondamentale del rapporto tra padri, madri, figli e figlie, ovvero la reazione di fronte all’evento tragico e luttuoso di una perdita “contronatura”: quando cioè a sparire, come in questo caso, è una figlia, Laura, dispersa insieme al fidanzato durante un’escursione in montagna. Dopo la tensione iniziale delle ricerche, che porteranno al ritrovamento del solo ragazzo, la realtà fino a quel momento relativamente tranquilla degli altri componenti della famiglia, la coppia Pietro e Mara e l’altro figlio, Agostino, si spegne gradualmente in un silenzioso e austero bianco e nero, talmente svuotato di vitalità e dilatato sulla levigata sospensione di spazio e di tempo, da aver quasi completamente prosciugato anche il pianto o qualsiasi altra esternazione corporale delle emozioni. Proprio per queste intrinseche, necessarie ragioni della storia, si tratta dell’opera di Chiantini più curata e rigorosa su un piano estetico, secondo una progressione che segue il raggiungimento di una maturità e di una consapevolezza dei propri mezzi espressivi, anche quelli drammaturgici, in rapporto con l’immersione dentro le tematiche ricorrenti del suo cinema.

Una scelta formale e stilistica che viene messa in atto fin dall’inizio, ancora prima che avvenga lo strappo dell’incidente, per annunciarne la portata ambivalente della forza e della precarietà di una famiglia; una costruzione dell’inquadratura che, utilizzando la profondità di campo negli ambienti chiusi e i campi lunghi per filmare la figura umana in rapporto con la vastità e l’asprezza imperturbabili del paesaggio, ridefinisce un certo senso di formalità e di costrizione del quotidiano da cui la temporanea via di fuga viene ricercata in un’altra stanza e in un altro pretesto (da subito scopriamo che Mara ha un amante) e, specularmente, nel rapporto con il fuori, l’impotenza e l’assenza di controllo verso i fenomeni naturali, pur in un’ostentata, controllante, paternalista tranquillità . Come sempre, in Chiantini non c’è alcuna forma di moralismo nei confronti dei comportamenti dei suoi personaggi, anche se un cambio di tono e di registro nell’essiccare fino al grado zero della rappresentazione l’apparente serenità di una famiglia borghese e mostrarne lo smarrimento delle rimozioni e dei non detti, è evidente, seppur con le cadenze e i ritmi di un’ introspettiva dolenza, e non con il fervore di una critica rivolta ad un conteso sociale e al modo in cui conduce e vive la propria dimensione affettiva. Peraltro la perdita di un figlio per una famiglia e le radicali conseguenze che ne derivano, non è certo un soggetto inedito per il cinema italiano, del quale il precedente più celebre è La stanza del figlio di Nanni Moretti, dove era sempre un incidente, in quel caso in mare, a scaricare il peso specifico della morte su una situazione di domestica tranquillità. Moretti raccontava però assai diversamente quell’esperienza cosi definitiva, facendo convergere ed esplodere le contraddizioni represse e omesse di quell’agiata borghesia nella condivisione di un grande, circolare abbraccio e nella reiterata, laica ritualità di un pianto individuale e collettivo, il bisogno di ricollocarsi di fronte all’imposizione di uno stato definitivo, Insieme a te non ci sto più. Il processo della separazione per Chiantini rimane in una filigrana intersoggettiva anche perché, e non si tratta di un dettaglio, non c’è neanche un corpo da poter salutare e tumulare, cosa che getta in particolare Mara in un’angoscia e in una non rassegnazione, nel continuare a percettiva la presenza di Laura visibilmente, tattilmente, sonoramente. Anche l’attenzione al dettaglio, per configurare uno stato mentale che, visti i presupposti, non può non correre il rischio di far slittare il non spiegabile, non verificabile e non quantificabile dolore sulla soglia dell’ossessione, acquista un valore a cui prestare ascolto: il suono della tromba, con il quale Laura cerca di svegliare il fratello Agostino per provare a portarlo con se in quella gita fatale, ritorna dunque verso la parte finale, e sembra provenire da un rimbombo generato dalle profondità della mente e delle cuore di Mara. Il dargli una provenienza e una spiegazione concrete (la banda della scuola, dove anche Laura suonava) significa comporre un movimento doppio, tra il rischio dell’allucinazione psicotica nel volare riconoscere quella medesima immagine/suon e il riscontro di una memoria che permette di mantenere un contatto con ciò che è stato passato ( non solo transitoriamente, come concetto di tempo, ma come forma di intransitivo attraversamento) e con quello che è allo stato attuale, nella ripetizione e nella differenza. Una sottigliezza che sembra provenire da un grande cineasta, chiaramente molto differente, come Roman Polanski, il quale ha fatto spesso uso del ritrovamento di un particolare concreto come la chiave d’accesso e di orientamento o di disorientamento dei suoi personaggi sulla scena confusa di uno choc e di un trauma.

Senza voler forzare l’impronta di un’autorialità che si identifica in una cifra più sommessa e intimista , il regista e sceneggiatore tenta di cogliere altre implicazioni del dramma, dove il mistero e l’imperturbabilità della montagna che fa sparire dentro gli esseri umani trasmette un’inquietudine e un turbamento vicini a quelli che tramette il memorabile Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, nel quale la sociale e culturale conformazione del collegio femminile viene messa alla prova dalla sparizione di tre studentesse adolescenti e di un’ insegnante durante la scalata di una millenaria roccia australiana, con il recupero di una di loro da parte dei soccorritori, priva di qualsiasi ricordo sull’accaduto (come l’amico di Laura pressato, in maniera passiva aggressiva, dal comprensibile bisogno di sapere prima di Pietro e poi di Mara). Anche un dubbio inesplicabile e monumentale come questo, il rapporto di collisione tra natura e cultura, viene comunque virato da Chiantini nella sfera privata e intima e restituito per il controcampo dello sguardo rispettivamente rassegnato e resistente, malinconico e determinato di un padre e di una madre senza la consolazione di un ritrovarsi tra sopravvissuti nella stravolta e invertita ciclicità della vita; ciascuno perseguendo il proprio modo di affrontare ed elaborare il fatto, riecheggiando e parafrasando la ferita originaria dell’alter ego sorrentiniano in È stata la mano di Dio: “Non me l’anno fatta vedere”, sembra essere questo il tarlo di Mara, che mette in moto la conseguente esplorazione di quell’alto piano innevato, Alla ricerca, stavolta, di una visione che può verificarsi solo nelle sembianze di un’apparizione o di un’allucinazione. Prima di poter accettare il ricordo di un entusiasmo, attimo dopo attimo, di un’esistenza in technicolor.
Separazioni – Regia e sceneggiatura: Stefano Chiantini; fotografia: Paolo Carnera; montaggio: Luca Benetti; musica: Piernicola Di Muro; interpreti: Barbora Bobulova, Adriano Giannini, Vanessa Compagnucci, Giordano Fochetti, Sergio Albelli, Ludovico Rubino; produzione: World Video Production, Rai Cinema, con il contributo di Regione Lazio, Regione Abruzzo; origine: Italia, 2025; durata: 87 minuti.
