-
Voto
Lo strano sposalizio fra quinta e settima arte non genera quasi mai frutti destinati a durare nel tempo: soprattutto se ad essere trasposti su grande schermo sono i luminescenti incubi di Sylvia Plath, una delle voci più oscure e inquietanti del secondo Novecento statunitense. Reduci dalle luci della ribalta, Bruno Bigoni e Francesca Lolli compiono un salto vertiginoso che li scaglia dal palcoscenico teatrale a quello cinematografico, cercando di attraversare il divario spalancatosi fra parola e immagine in movimento.
Nel caso di Three Women, spaventoso cantico a tre voci declamato per la prima volta nella lontana estate del 1962 e uscito solo postumo in forma scritta, l’abisso che separa il film dalla poesia sembra troppo profondo per essere scavalcato con l’ausilio di una buona cinepresa. I due registi tentano di introdurre in sala un’opera destinata esclusivamente alla recitazione, ad un raccoglimento femminile dai contorni tanto intimi quanto universali. L’impresa non può certo dirsi riuscita e l’obiettivo finisce per smarrirsi in un labirinto fantastico decisamente troppo involuto per la prosaica disperazione sprigionatasi dal testo originale. Ma procediamo con ordine.
Forse è il caso di rischiarare le zone d’ombra: che ci crediate o no, le tre voci della Plath appartengono a individui in carne ed ossa, per la precisione a tre donne immortalate nel terribile attimo che precede la loro potenziale metamorfosi in madri. È in realtà un’idra a più teste quella messa in scena dalla scrittrice, un mostro mitologico dall’aspetto ibrido e dalla fisionomia mutevole, un soliloquio che è anche un dialogo – non a caso, la pièce si presenta al pubblico come un lungo Monologue for Three Voices. Incrociatesi in sala parto, le spettrali protagoniste ripercorrono a ritroso le proprie esistenze fino all’attimo fatale, quello in cui persero il privilegio d’essere sole, d’essere libere, d’essere ciò che sono sempre state. Di loro non conosciamo nulla, né il nome, né l’età, non siamo in grado di distinguerne i tratti: ogni elemento riconducibile al concetto d’identità personale si annulla, ma la donna che è donna solo in funzione dell’uomo e dei suoi desideri reclama violentemente la singolarità negatale. Ad esempio, ripudiando ciò che invece dovrebbe accogliere o abbandonando colui che nasce per starle a fianco.
E ora veniamo al film, o meglio, alle visioni che gli sceneggiatori sovrappongono alle visioni della poetessa. L’effetto è caotico e le istantanee, seppur con una certa grazia, aggrediscono l’occhio e l’orecchio dello spettatore. Il verso, che invece sarebbe bene mantenere intatto nella sua ferina crudeltà, si frantuma in centinaia di piccole schegge: vediamo un corpo, che diventa cielo, che diventa un treno un movimento, che diventa un fiore. L’assolo si smembra fra le tre interpreti, una delle quali (a dispetto delle promesse iniziali) trapianta l’elegante e tagliente idioma della Plath in una sorta di italiano colloquiale che prepotentemente spezza l’immersione nella fantasmagoria.
Abbiamo la sgradevole sensazione che i fotogrammi intorbidino i vocaboli, costringendoci a sbrogliare ciò che altrimenti risulterebbe lampante e immediato. Forse non è nemmeno colpa dei registi, forse per innestare la lirica in questo stravagante dipinto cinematografico ci vorrebbe un genio. Va comunque spezzata una lancia a favore della coppia Bigoni-Lolli, ormai quasi habitué del Torino Film Festival e reduce da una prima collaborazione in Voglio vivere senza vedermi (2019): nella torbida sinfonia salmodiata dalle nostre tre voci (che poi sono mille), non tutti i vocaboli vengono necessariamente pronunciati. Le strofe scalpitano, si accavallano, spesso e volentieri interrompendosi a vicenda, come se la donna combattesse contro la donna, come se questa curiosa distopia matriarcale faticasse a trovare un suo equilibrio, una sua stabilità emotiva.
In effetti, questo silenzio glaciale è forse lo stesso in cui la giovane autrice, ad un anno dalla sua (volontaria?) dipartita, si ritrovava imprigionata. Censura, censura e ancora censura: qui e solo qui converge il senso ultimo dell’intera sua opera, in vita come in morte – non fu la madre, creatura inaccessibile nella quale Sylvia mai si riconobbe, a ostacolare il suo cammino? Non fu il marito Ted Hugues a tarparle le ali, distruggendo per giunta i suoi ultimi scritti? Sarebbe quasi il caso di dire, rielaborando le parole della poetessa: tale piattezza non può essere sacra. E infatti anche qui il microcosmo maschile, sorta di non-luogo sconosciuto e inconoscibile, viene relegato sullo sfondo, quasi non avesse alcuna importanza: solo nell’ultima, gelida inquadratura ne riconosciamo i lineamenti, l’attimo prima che la pellicola con un cenno a dir poco brusco s’interrompa. Il resto è storia.
Cast & Credits
Tre donne, di Sylvia Plath – Regia: Francesca Lolli, Bruno Bigoni; sceneggiatura: Francesca Lolli, Bruno Bigoni; fotografia: Francesca Lolli; montaggio: Francesca Lolli, Bruno Bigoni; interpreti: Giulia Battisti, Chiara Buono, Davide Sangiovanni, Alice Spito, Adriano Baiocco, Francesca Sebastiani, Joy Harris, Jessica Forrest; produzione: Electric Film; origine: Italia 2021; durata: 54’.
