Illusioni perdute di Xavier Giannoli

  • Voto
3.5

Cos’è il talento? Cos’è la letteratura, all’epoca del rotocalco stampato? Cos’è il potere, nel sacro Reame di Sua Maestà la Rivista Satirica? Ce lo spiega Xavier Giannoli attraverso il decimo atto della magniloquente Comédie humaine concepita da Honoré de Balzac fra i paludosi Faubourgs della Parigi post-Rivoluzione e post-Restaurazione. Illusioni perdute, in originale Illusions perdues (passato in Concorso, purtroppo con scarsa fortuna, alla scorsa Mostra di Venezia), si articola come un complesso lavoro d’interpretariato, ma anche come un commosso omaggio al grande padre del romanzo europeo, al puntiglioso intuito che ne contraddistingue gli accenti e che converte la sua opera nel sismografo per antonomasia della modernità.

L’idea di trasporre su grande schermo le catene e gli ingranaggi di un simile marchingegno poetico è più che audace – potremmo quasi dire:  folle. La penna di Balzac è precisa, meticolosa, cinica, ma anche sediziosa, anarchica, sovversiva, e va dove le pare e piace. Costruire una pellicola all’ombra di una simile scrittura non è impresa per tutti: bisogna saper dilatare i tempi e gli spazi, concedersi senza remore al dettaglio, imparare a guardare ciò che di solito non viene nemmeno intravisto, lasciare la vita libera di fluire verso sé stessa. Se avete impegni improrogabili, se siete distratti o impazienti, se cercate semplicemente un modo per passare il pomeriggio, Balzac non fa per voi. Così come non fa per voi il film di Giannoli.

Mettetevi dunque comodi sulle vostre poltrone e preparatevi ad entrare nel carnevale parigino che investì la Francia dopo la caduta di Monsieur Bonaparte. Nomi come quello di Luigi XVIII, Carlo X e via dicendo, spariti dalla circolazione per diversi decenni, si ripresentano in scena con un coup de théâtre degno di Molière. La nobiltà riprende il suo posto all’apice della piramide sociale, l’entourage pseudo-aristocratico dell’alta borghesia rientra nei ranghi e bacia le mani di conti, baronesse, signorotti non ancora decaduti. La parola d’ordine è laissez faire – un principio su cui si basa l’intero universo contemporaneo e che consente alla civiltà di cannibalizzarsi come se nulla fosse.

È in un tale corteo che incontriamo il giovane e schietto Lucien (Benjamin Voisin), un poeta di Angoulême le cui grandi aspettative verranno date in pasto all’entropia metropolitana. Per occultare il tragico legame che lo unisce all’inaccessibile Louise de Bargeton (una Cécile de France piuttosto piagnucolosa), il ragazzo viene spedito nella Capitale delle Capitali – per ogni orfano ingenuo e ambizioso che sia nato fra il Terrore e il regime napoleonico, Parigi è il solo luogo di perdizione degno d’esser definito tale. Se le campagne provinciali sembrano aver attraversato la Storia senza riportarne ferita alcuna, la Ville Lumière corre a velocità supersonica: qui banchieri, impresari, attrici, editori si affannano per guadagnarsi la luce dei riflettori, la parola pubblica – ovvero, l’unica cosa che ormai conta. La legge del mercato regola i rapporti fra uomo e mondo, fra uomo e uomo, fra mondo e mondo. Mentre l’Antico Regime continua ad agitare i fili delle sue marionette, i nuovi padroni lanciano anatemi nelle redazioni dei giornali, nei teatri dei Boulevards, nei salotti di vecchi palazzi già quasi in rovina.

Seguendo fedelmente le orme di Balzac, Giannoli trasporta sul grande schermo le gioie e le angosce che segnano il passaggio dalla prima infanzia all’età adulta, puntando il proprio bisturi sui personaggi e sui loro sogni come se si trattasse di vivisezionare alcune cavie da laboratorio. Applicando il teorema naturalista con la precisione (e la pignoleria) di un ingegnere, il regista ci racconta il declino delle belle – o, per meglio dire, buone – lettere e l’ascesa di quelle cattive, tracciando le radici dell’oggi con una vivacità propria soltanto dei grandi romanzieri – o dei giornalisti particolarmente arguti.

La cinepresa amplia e dilata le prospettive, donando ad ogni figurina il meritato spessore e illuminando le zone d’ombra della grottesca commedia: così, scopriamo l’insospettabile malinconia che tormenta i cinici di professione come il fruttivendolo-editore Dauriat (Gérard Depardieu) o la puerile frustrazione dell’enfant terrible Étienne Lousteau (Vincent Lacoste).

Il dramma della fanciullezza perduta si dipana dietro alla superficie patinata dei balli in maschera, fra i caratteri irriverenti dei quotidiani prodotti in serie, ma specialmente negli occhi della sfrontata Coralie (Salomé Dewaels), sorta di Berenice del Varietà. Sarà infatti proprio Jean Racine, il genio francese per antonomasia, a decretare la fine di ogni illusione, dandosi in pasto alla réclame e restituendo alla provincia coloro che soccombono alla giungla. Il palcoscenico allestito da Giannoli ricalca quella sobrietà spietata, quella sarcastica accuratezza e quell’indulgenza crudele tanto ricorrenti nella voce di Balzac. Il segreto è non aggiungere nulla: l’obiettivo lo sa bene e si getta in una laboriosa impresa di traduzione, rimanendo devoto all’onniscienza del narratore e volando, insieme ad esso, in alto.

Dal 23 dicembre in anteprima in alcune città e poi dal 30 in programmazione in sala


Cast & Credits

Illusions perdues/Illusioni perdute  – Regia  e sceneggiatura:    Xavier Giannoli; fotografia: Christophe Beaucarne; montaggio: Cyril Nakache; interpreti: Benjamin Voisin (Lucien de Rubempré), Gérard Depardieu (Dauriat), Cécile de France (Louise de Bargeton), Vincent Lacoste (Étienne Lousteau), Xavier Dolan (Raoul Nathan), Jeanne Balibar (Marquise d’Espard), Louis-Do de Lencquesaing (Finot), Jean-François Stévenin (Singali), André Marcon (Baron du Châtelet), Jean-Paul Muel (Monsieur de Bargeton), Salomé Dewaels (Coralie); produzione: Curiosa Films (Olivier Delbosc), Gaumont, France 3 Cinéma; origine: Francia 2021; durata: 144’; distribuzione: I Wonder Pictures.

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