Berlino F.F.: Call Jane di Phyllis Nagy (Concorso)

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L’unico film americano in Concorso (già passato al Sundance, evidentemente sono finiti i tempi in cui a Berlino in Concorso c’erano solo film in prima mondiale…), ovvero Call Jane  della regista Phyllis Nagy – cinquantenne di evidente origine ungherese, con alle spalle la notevole sceneggiatura di Carol di Todd Haynes – non ha purtroppo ricevuto alcun premio. È un vero peccato perché il film  avrebbe meritato un riconoscimento, segnatamente quello alla sceneggiatura, a nostro modesto avviso la migliore di tutta la Competizione. Le è stata preferita la sceneggiatura, assai più farraginosa di Laila Stieler, autrice di Rabyie Kurnaz vs George W. Bush, (https://close-up.info/berlino-f-f-rabyie-kurnaz-vs-george-w-bush-di-andreas-dresen/) un buon lavoro, per carità, ma pieno di inutili detour per un film anch’esso d’impegno politico e, a sua volta, almeno in parte ambientato in America.

A differenza del film di Andreas Dresen (collocato nella contemporaneità), nel caso di Call Jane ci troviamo di fronte a un film ambientato negli anni ’60, anzi nel 1968, che ha tutte le caratteristiche del period film e che tenta, seppur solo in parte, di mutuare certi stilemi della New Hollywood.

Call Jane racconta la storia dell’assai plausibile evoluzione di una casalinga borghese, Joy (interpretata dalla brava Elisabeth Banks), moglie di un avvocato di grido. La donna che ha già una figlia quindicenne resta incinta ma scopre che la gravidanza le sta procurando importanti problemi cardiaci, così importanti da mettere addirittura a repentaglio la sua vita, ma non quella del feto, a quanto pare. Una ragione che il board dell’ospedale non ritiene sufficiente per procedere a un aborto terapeutico. E allora Joy decide, all’insaputa di marito e figlia, di trovare una soluzione per conto suo, per il semplice motivo che ha nessuna voglia di rischiare la morte.

Entra così in contatto con un collettivo femminista di auto-aiuto, una comune utopica e fattiva, guidata da Virginia, una sensazionale Sigourney Weaver, che con l’ausilio di un “medico” produce in assoluta sicurezza, aborti clandestini. Joy, che all’inizio è andata lì solo per interrompere la gravidanza per poi riprendere la sua vita consueta, a poco a poco entra a far parte del gruppo assumendo posizioni sempre più importanti ma in qualche misura restando fedele anche alla donna che era, non foss’altro nel suo modo di vestire, nei suoi completini, nelle sue camicine, laddove invece Virginia è, anche nel modo di abbigliarsi, la classica femminista degli anni ’60-’70 – e a lei sono riservate alcune scene scritte con in modo esemplare. L’impegno di Joy provoca, lo si capisce ben presto, la necessità di una catena di menzogne a marito e figlia, con una serie di conseguenze che non riveleremo, anche perché il film con certezza arriverà in Italia.

Non siamo in presenza di un film particolarmente innovativo sul piano formale (anche se vi sono un paio di sequenze in cui la fotografia è tutt’altro che banale, per esempio nell’uso nervoso della camera a mano quando il collettivo deve decidere a chi assegnare i due slot settimanali di aborti gratuiti e c’è davvero l’imbarazzo della scelta) che riesce a rappresentare una serie di personaggi (maggiori e minori) che funzionano molto bene, a restituire l’atmosfera di una certa epoca e di un certo cinema, forse qua e là venato di una qualche nostalgia nei confronti di un tempo in cui le battaglie da combattere erano molto chiare, in cui fronti erano netti – insomma tutta la bellezza, l’idealismo, il senso di sfida degli anni ’60, anzi del ’68, magistralmente esemplati dalla frase empatica e orgogliosa che Virginia dice sul finire alla figlia di Joy: “Mi rendo conto, cara, che è difficile crescere negli anni ’60”.

Come il film di Dresen anche questo si conclude con un pronunciamento della corte suprema, siamo nel 1973 e finalmente gli USA depenalizzano l’aborto. Ma le battaglie continuano. In sala – abbiamo visto il film a una proiezione aperta anche al pubblico – applausi scroscianti.

Una confessione: partecipare a un festival significa, non lo neghiamo, guardare spesso l’orologio (il cellulare) perché sono pochi, davvero pochi, i film dotati di ritmo. Soprattutto sono pochi quelli che riescono a farti davvero entrare nel loro ritmo, diciamo così, altro; in questo concorso della Berlinale, a nostro avviso, questa capacità l’hanno avuta due film soltanto ovvero Drii Winter (https://close-up.info/berlino-f-f-drii-winter-concorso/) e Return to Dust (https://close-up.info/7169-2/). Con Call Jane questo problema non si pone, perché il film, senza essere banale, ha un ritmo decisamente eccellente.


Cast & Credits

 Call Jane – regia: Phyllis Nagy; sceneggiatura: Hayley Schore, Roshan Sethi; fotografia: Greta Zozula; montaggio: Peter McNulty; musica: Isabella Summers; costumi: Julie Weiss; interpreti: Elizabeth Banks (Joy), Sigourney Weaver (Virginia), Chris Messina (Will), Wunmi Mosaku (Gwen), Kate Mara (Lana), Cory Michael Smith (Dean), Grace Edwards (Charlotte); produzione: Robbie Brenner, David Wulf, Kevin McKeon per Protagonist Pictures, Ingenious Media, LB Entertainment, Redline Entertainment; origine: Usa 2022; durata: 122.

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