A Real Pain di Jesse Eisenberg (Oscar a Kieran Culkin come migliore attore non protagonista)

  • Voto
3

Non è solo, e non è tanto, la dicotomia tra due caratteri, intesi come speculari modi di stare al mondo e in relazione con se stessi e con gli altri, ad accompagnare la dinamica on the road di David e Benji in A Real Pain, seconda regia di Jesse Eisenberg dopo l’ esordio del 2022, Quando avrai finito di salvare il mondo: a confronto sono semmai due modi di vivere ed esprimere il dolore dietro la schermo/scherno della formalità o dell’eccesso, della estro o intro versione nel raccontare la propria  storia, il più delle volte familiare e generazionale, comune e condivisa, eppure reclamata come esclusiva. Il viaggio in questione, topos super abusato e prosciugato di qualsiasi racconto di formazione o buddy movie, o tutte e due le cose  insieme, ha già uno status tragico di base, e non di una tragedia qualsiasi , ma della più emblematica del ‘900;  i due cugini si stanno infatti  recando in Polonia per ricordare la nonna  recentemente scomparsa, un’ebrea sopravvissuta all’ Olocausto, e prima di arrivare a porgere un omaggio e una saluto di fronte alla porte della casa della donna, compiranno insieme ai parenti di altri sopravvissuti uno di quei cosiddetti “tour del dolore”, tra cimiteri e campi di concentramento, organizzati talvolta in maniera troppo turistica e didascalica in luoghi di reale sofferenza e patimento. A prescindere dalla dimensione collettiva e storica, entrambi portano poi il loro personale e quello sì, veramente comune, fardello di insofferenza e insoddisfazione. David (lo stesso Eisenberg) è un marito e padre premuroso, affidabile, lavoratore, portatore di quella medietà senza picchi e senza digressioni che lo rendono anonimo agli occhi dei compagni di viaggio; Benij è tormentato, precario nel lavoro e nella condizione psico-emotiva, impulsivo nel gesto e nella parola, ma cosi caldo e carismatico, potenzialmente sorprendente e creativo nell’happening estemporaneo dell’esperienza, tanto da conquistare e sedurre velocemente tutti.

Kieran Culkin

Su uno schema talmente ovvio, Eisenberg sceglie però di non caricare i toni sulla scia di inevitabili recriminazioni che ci si aspetterebbe a un certo poter veder esplodere soprattutto dal paziente e represso David. Fuori dal cliché e dall’aspettativa di un’azione e di una reazione, il laconico interprete di The Social Network, anche autore della sceneggiatura,  si rifà ad una sottigliezza e delicatezza di scrittura che ricorda l’opera di un ottimo regista-sceneggiatore come Kenneth Lonergan, in particolare il suo splendido esordio, Conta su di me (2000),  altra dolceamara ricognizione tra gli sbandamenti e i ritrovamenti, in quel caso tra un fratello e una sorella nel loro piccolo sobborgo di provincia. I cugini Kaplan hanno in verità i tratti più nevrotici, con inevitabili echi del mondo alleniano, dei metropolitani newyorkesi, ma dopo l’esposizione della tartagliata e minimalista parlantina di David nell’incipit, questo rimando si placa e sfuma in una semplicità e soavità impressa su immagini che possiedono la luce carezzevole del sole, anche laddove sfiorano pudiche e silenziose le raggelanti zone d’interesse, e il buio blues e malinconico delle notti sui tetti dei palazzi polacchi, che perdono i loro connotati geografici e si ammantano della veduta di una memoria intima tra Benji e David; quelle serate nella quali era impossibile dormire per uno e non addormentarsi per l’altro.

In un film tanto lineare e onesto, dove l’autore/attore sembra giocare nella confort zone di un tipo di racconto e di messa in scena che conosce assai bene, l’azzardo sta, invece, nel voler tentare di toccare dei nuclei profondi, di scardinare il giardino curato e gradevole di una falsa coscienza che rimuove o non vede il dolore nella sua manifestazione quotidiana, prossima, vicina. Era rischioso accomunare/avvicinare una più estesa e collettiva visione dell’orrore abissale della Storia (introducendo tra i partecipanti al viaggio anche il sopravvissuto al genocidio di una guerra civile africana, convertitosi per senso etico ed empatico all’ebraismo), alla depressione profonda e terminale celata dietro l’istrionismo piuttosto performativo di Benji; un personaggio al quale Kieran Culkin, fratello minore del problematico ex bambino prodigio Macaulay e passato (sopravvissuto?) anche lui, più sottotono, per la gabbia dorata di un’infanzia cinematografica , offre inaspettati sbalzi di intuitiva saggezza e covata rabbia,  con una vibrazione da soggetto borderline riassunta in un bel close up finale nella sala d’attesa dell’ aeroporto.

E, spingendosi oltre, nel dare uno spazio e una voce, senza l’enfasi della scena madre, all’opacità retroflessa nella quale sparisce David che invece, con amara consapevolezza e cocente tensione, vorrebbe splendere come il desiderabile e carismatico cugino.

Lo spessore di questa controparte è compensato dal procedere  “sempre in movimento, agile e veloce” , come direbbe Benji, degli eventi principali, piccoli imprevisti di percorso come la mancata fermata alla stazione  giusta e un treno preso al volo senza biglietto, momenti in grado di mantenere viva l’attenzione mai smarrita tra le insidie di un’eccessiva evanescenza e inconsistenza, o di una troppo pesante carica sentimentale e patetica. Nel destreggiarsi con abilità, Eisenberg non è talvolta esente da un certo, lezioso buongusto nella scelta delle musiche, degli ambienti, di alcune inquadrature di raccordo gradevoli e levigate. Potrebbe essere l’ulteriore contrappunto di una situazione paradossale dove, come dice Benji, il tour del dolore è dislocato su alloggi in alberghi lussuosi e spostamenti in biglietti ferroviari di prima classe (per quelle tratte su cui i loro antenati venivano spostati in ammassamenti massacranti, stipati e trattati come oggetti e come bestiame).  Non escludendo questo aspetto, compresa l’intelligenza della scrittura filmica del regista, in verità  si è più portati a credere alla scelta di un registro espressivo sottotono, che rasenta l’illustrativo, il buon gusto, la piacevolezza, un contenitore rassicurante e tollerabile per gli struggimenti e i sensi di colpa. Non è però qualcosa che permea il film a tal punto da viziarne il senso e l’acutezza, ma ne media l’impatto e la potenzialità di suscitare una pur sommessa commozione. Riconosciuto tale limite, non si può nascondere, proprio come scriveva Giovanni Grazzini a proposito di un personaggio di Interiors (1978), una delle più straordinarie e cristalline rappresentazioni del vero dolore da parte di Woody Allen, che rimane il desiderio di andare a trovare Benij di ritorno dalla Polonia, seduto di nuovo in quel terminal dell’aeroporto di New York, a vedere i tipi sballati che si aggirano lì intorno e a sentire le inquietudini che si muovono dentro di lui.

In anteprima alla Festa di Roma 2024 – Alice nella Città (Concorso)
In sala il 27 febbraio 2025


A Real Pain – Regia e sceneggiatura: Jesse Eisenberg; fotografia: Michael Dymek; montaggio: Robert Nassau; interpreti: Jesse Eisenberg, Kieran Culkin, Will Sharpe, Jennifer Grey, Kurt Egyiawan, Liza Sadovy, Daniel Oreskes; produzione: Topic Studios, Fruit Tree, Rego Park, Extreme Emotions; origine: USA, 2024; durata: 90 minuti; distribuzione: Disney Pictures Italia.

 

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