Ali&Ava – Storia di un incontro di Clio Barnard

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Somewhere in northern England, vi sono scorci di anime urbane nei riflessi di vetri gocciolanti. Come le gocce lungo i finestrini le anime s’incrociano, si uniscono e poi si distaccano quando ne incontrano una nuova, difficile ma intenso è descrivere separazioni e incontri; magari un sottofondo piacevolmente bagnato dell’intima quanto popolare periferia della periferia britannica può aiutare. Ali&Ava – Storia di un incontro, per la regia di Clio Barnard, è una pellicola che si ‘accontenta’ di raccontare una microstoria della vita di ogni giorno, lo fa dando il giusto peso alla complessa benché esasperante ricerca di amore quando dall’amore si è già stati presi a calci in faccia, per anni. All’uscita dalla sala si ha una tiepida percezione, quella di avere avuto davanti agli occhi, in alcuni istanti, qualcosa di bello perché sincero.

Bradford, West Yorkshire. Ava (Claire Rushbrook) è insegnante di sostegno e madre di tre figli nonché vedova. Ali (Adeel Akhtar) gestisce vari immobili, il suo matrimonio è giunto al termine, ma non vuole dirlo alla famiglia. Non è ancora pronto ad ammetterlo, a loro come a se stesso, la moglie Runa (Ellora Torchia) invece sì, anzi, ha già messo una pietra sul passato. Ali e Ava non potrebbero essere più differenti – lei di fiere origini irlandesi, lui bengalese, lui «persona che va da zero a cento» e che «a volte non riesco a spegnere il cervello», lei riflessiva, piena di dubbi – e al contempo non potrebbero essere più simili: entrambi sono stati feriti dal passato, entrambi non vedono l’ora di andare oltre.

Al suono del «fottuto folk» e di un rap casalingo, le due anime entrano in contatto. Strano a dirsi, è Ali a intravedere qualcosa che Ava ancora non ha visto, e non ha mezzi termini per farglielo capire: «voglio restare». Lei è titubante e lui lo capisce la prima notte che dorme a casa sua: sotto il letto ci sono degli stivali. Sono quelli del marito di lei, Paul, che con quegli stivali la prendeva a calci fino allo sfinimento. La questione potrebbe cadere in secondo piano, adesso, tuttavia non può poiché quegli stivali qualcuno ancora li indossa. È Callum (Shaun Thomas), il figlio di Ava, uno degli ostacoli che si oppone alla loro relazione. Non è infatti tutto rose e fiori, e non solo perché siamo nella profonda Inghilterra bianca ma anche perché a volte all’eccitante nostalgia del presente si mescola quella confortante del passato, e fare un passo indietro risulta più facile di fare un passo in avanti.

Clio Barnard torna a Bradford, città in cui aveva girato il documentario The Arbor (2010) poi la favola realista The Selfish Giant (2013), e ci porta tra nebbia congenita e fumi delle fabbriche, tra facciate di case in serie e ciminiere, ogni edificio e persona avvolta in quella atmosfera soffusa dominata dalla mist: pioggerella fine fine che è come se non esistesse ma in realtà c’è e tutto impregna, vestiti e corpi. Le tonalità subiscono allora il fascino dell’opaco, la fotografia si fa fredda e i colori si frantumano in sfumature rapprese sui vetri delle auto e delle case. I personaggi, sostenuti da una sceneggiatura e interpretazione splendida, sono abituati a questo mondo sfumato e riflesso dove vivono emozioni forti, immediate, «da zero a cento» ma giustificate da un terreno che è fertile e permette che siano coltivate e possano crescere in rapidità. Ali è sboccato e istintivo, senza freni alcuni, sia nei rapporti con Ava che con l’ormai ex moglie, Ava è invece attenta a non voler ferire ciò che la e li circonda. Non è un caso che lui fino allora abbia gestito case e lei bambini. Il loro è un amore che non può che nascere, non può che crescere.

È una bella costruzione del sentimento quello che si osserva ed è bella perché sincera, naturale. La mdp li studia nel loro quotidiano, distante, poi corre in primissimi piani per osservare la loro reazione all’abitudinario come al differente. Ali la trascina e Ava si fa trascinare, poi s’invertono i ruoli e tocca a lui essere trascinato quando prende in mano una chitarra e si ritrova a cantare Bob Dylan. Lei ha paura di rimanere ferita e lui non ha paura di ferire, si ritroveranno a metà, una ferita a testa, quelle che fanno tanto sangue però non vanno in profondità: la loro è pelle ormai coriacea e le baruffe da corteggiamento sono lividi superficiali che permettono di rivelare la posizione di altre emorragie, le interne, quelle che necessitano anni per curarsi, meno se c’è qualcuno a darti una mano.

Presentato al Festival di Cannes 2021, nella “Quinzaine des Réalisateurs”, Ali & Ava – storia di un incontro è qualcosa di prezioso. Rivela un’Inghilterra che raramente tocca la pellicola, racconta un mondo attuale nel quale l’inglese doc non è l’inglese a cui siamo abituati e per un’ora abbondante di film si percepisce quel mondo, quello periferico, e lo si sente tanto lontano quanto vicino alla vita che noi conduciamo ogni giorno. Si è voluto iniziare la recensione con un riferimento, quello a Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino, perché anche qui si parla di elegia d’amore ma un elegia all’inglese, multietnica e contemporanea, non sospesa nell’Italia degli anni ’80 ma pregna dello smog dello Yorkshire.

Il paesaggio è invero grigio, parrebbe avverso alla nascita di qualsiasi tipo d’amore, eppure la realtà è che dove c’è maggiore freddo, maggiore è la ricerca di sicurezza, per esempio dentro case fatte a stampino, case di cartapesta dove s’incontrano persone e ballano sui divani una musica che solo loro sentono. Folk, rap, che importa? gli altri possono solo guardare e non capire. Vero è che corteggiamento e amore puro sono due cose distanti, tuttavia non qui, non in questo film, perché il primo e secondo amore i due lo hanno già avuto, il terzo è quello in atto e quando si è già amato ci si può concedere la possibilità di amare fin dai primi sguardi. Non c’è tempo da perdere, o meglio, c’è tutto il tempo di questo mondo che deve essere perso. Per cosa? Per ricordarsi di amare.

Dal 14 aprile al cinema


Ali & Ava – storia di un incontro (Ali & Ava) – Regia: Clio Barnard; sceneggiatura: Clio Barnard; fotografia: Ole Bratt Birkeland; montaggio: Maya Maffioli; scenografia: Stéphane Collonge; costumi: Sophie O’Neill; musica: Harry Escott; interpreti: Adeel Akhtar, Claire Rushbrook, Ellora Torchia, Shaun Thomas, Natalie Gavin, Mona Goodwin, Krupa Pattani, Vinny Dhillon, Tasha Connor; produzione: BBC Films, Moonspun Films; origine: Regno Unito, 2021; durata: 95’; distribuzione: I Wonder Pictures.

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