Aspettando Godot di Theodoros Terzopoulos

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Impicchiamoci, subito!

Va bene, però prima tu.

Due cose hanno dato inizio al Tempo: il Big Bang e l’attesa. Se del primo non ne abbiamo percezione perché abituati a “subirne” i vari effetti dal primo respiro, della seconda abbiamo coscienza. Occhi all’orologio, mani sudate, smorfia sul viso. Se un evento è prima di tutto attesa di quell’evento, nell’attesa allora ci può essere di tutto e Beckett ci mette una grigia riflessione senza un senso designato, mentre Theodoros Terzopoulos concentra abilmente l’opera in una scenografia ben definita e riempie quella stessa scena di simboli che ancorano la vaghezza beckettiana ai dolori terreni e sociali. Ne esce un lavoro a tratti didascalico, ma perché un autore degli anni ’50 – periodo di intellettualismo e astrattismo puro – possa vivere nei nostri giorni, è necessario dare una direzione. Insomma, avere le idee chiare, oltre a uno splendido cast, è sempre un’ottima manovra.

Come saresti finito senza di me?

Come sarei finito?

Vladimir ed Estragon hanno dei soprannomi, Didi e Gogo. Loro si chiamano così, mentre aspettano Godot. Godot è…Godot è un po’ tutto. O meglio, sapere chi sia Godot equivarrebbe a sapere tutto e Didi e Gogo non sanno nulla, sanno solo che devono aspettare perché…va be’, devono aspettare, anche se

Niente, non succede niente.

E sulla scena passano solo chi Godot potrebbe essere ma non è: Lucky e Pozzo, per esempio. Il primo uno schiavo, l’altro un padrone. E poi c’è il ragazzo. Il ragazzo è un messaggero di Godot che bada alle sue pecore e che anche oggi, come ieri, viene per annunciare che no, Godot non verrà oggi. E allora? E allora Didi e Godo possono solo fare ciò che gli viene meglio, decidere di impiccarsi o

Aspettare Godot.

In scena al Teatro Vascello, teatro sempre pronto a cogliere l’esperimento andato a buon fine, Aspettare Godot è una delle opere teatrali emblematiche del Novecento. In sé non avrebbe bisogno di spiegazioni per la sua caratura, ancor meno ne necessita se si ricorda che il fulcro del lavoro di Beckett è proprio l’impossibilità di dare spiegazione compiuta all’opera (come alla vita). Chi sono Didi e Gogo? Sono solo dei senzatetto, sono un uomo diviso in due, sono l’intera umanità? E Lucky e Pozzo? Umanità e capitalismo? E Godot? Dio o dio umano? Speranza o maledizione? Risposta a queste domande non deve esserci, Theodoros Terzopoulos lo sa e non fornisce risposte, ma rilancia i significati attraverso scenografia e oggetti.

Un cubo tagliato da uno spiraglio a forma ci croce. Già, c’è l’idea del vedo-non vedo che è il parente prossimo e visivo dell’attesa. Il cubo però si taglia e si alza, Vladimir ed Estragon paiono corpi in bare, a contatto. Il cubo viene squarciato da una lama. Il cubo si apre e si fa croce. Una croce bianca cala dall’alto. Sangue cala dall’alto e rintocca su un elmo da soldato. Due scarpe rosse sono impiegate per strofinarsi le ferite. Pagine strappate da un libro sporco di sangue cadono sul palcoscenico. E in mezzo a questo infinito e materico rilanciarsi di significati, Beckett lascia cadere delle briciole e dei piccioni che le becchino:

Sono infelice.

Da quando?

Me n’ero dimenticato.

Didi e Gogo, Didi ha Gogo, Gogo ha Didi. Nonostante stiano aspettando il tutto, nonostante non stia succedendo niente. È ricerca dell’Altro, è possibilità di avere sempre una persona accanto con cui condividere la difficoltà di questa cupa esistenza. Per Beckett la presenza dell’Altro – per quanto squallida e livida – è il massimo a cui si possa sperare, soprattutto quando sopra di noi c’è soltanto un essere irraggiungibile e sotto un essere che domina il denaro. E poi c’è l’Altro, quello che vive all’interno. Camera buia, regione dell’istinto e del delirio, l’incomprensibile che non ha parole definite ma interrotte, smozzicate, mangiate. Didi e Godo, uno e duo, si trovano nel mezzo di queste verticalità e orizzontalità, e come noi – occhi all’albero, mani sudate, smorfia sul volto – attendono, finché decidono che

Ormai non ne vale più la pena, andiamo.

Eppure eccoli ancora lì.

In scena fino al 5 febbraio al Teatro Vascello, Roma.


Aspettando Godotregia, scene, luci e costumi: Theodoros Terzopoulos; interpreti: Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano, Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola; musiche originali: Panayiotis Velianitis; consulenza drammaturgica e assistenza alla regia: Michalis Traitsis; training attoriale – Metodo Terzopoulos: Giulio Germano Cervi; scene: Laboratorio di Scenotecnica di ERT; responsabile dell’allestimento e del laboratorio di costruzione: Gioacchino Gramolini; costruttori: Davide Lago, Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Leandro Spadola; scenografe decoratrici: Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Martina Perrone, Bianca Passanti; progettazione led: Roberto Riccò; direttore tecnico: Massimo Gianaroli; direttore di scena: Gianluca Bolla; macchinista e attrezzista: Eugenia Carro; capo elettricista: Antonio Rinaldi; fonico: Paolo Vicenzi; sarta realizzatrice e sarta di scena: Carola Tesolin; foto di scena: Johanna Weber; ritratti: Luca Del Pia; produzione: Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini; in collaborazione con Attis Theatre Company; durata: 75′.

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