Non si può dire che manchi di tempismo questo Bad Roads – Le strade del Donbass, che esce in Italia più di un anno e mezzo dalla presentazione alla Mostra di Venezia nel 2020, all’interno della “Settimana della Critica”, dopo aver rappresentato l’Ucraina agli Oscar come miglior film straniero, senza esser tuttavia riuscito a entrare nella short list. Un film dunque che desta interesse, fin dal titolo, anche in grazia alla sua clamorosa, tragica attualità e, in tal senso, potrebbe anche sembrare un’operazione, forse, un po’ cinica. In realtà non è così dato che si tratta di una pellicola che, a prescindere da quel che sta accadendo, merita senz’altro di essere visto.
Il progetto che sta alla base dell’opera di Natalia Vorozhbit nasce a immediato ridosso della crisi del Donbass, notoriamente risalente a poco meno di dieci anni fa, al 2014. Ne è responsabile la regista quarantasettenne (con una vasta esperienza di sceneggiatrice di serie televisive di successo alle spalle) di origine ucraina, ma che da tempo opera a Londra. Infatti proprio nella capitale inglese nasce l’idea di partenza, la quale però si concretizza in prima battuta attraverso un altro medium, ossia il teatro; la pièce dal medesimo titolo è per l’appunto andata in scena al Royal Court Theatre già nel 2017. Dopodiché, dato il successo, la regista ha deciso di approntare una versione cinematografica, cercando di movimentare la trama e di alleggerire i dialoghi, come aveva dichiarato in occasione della prima veneziana.
Va detto che, malgrado gli sforzi, il film resta, però, decisamente di impianto teatrale, con una netta predilezione per una mdp fissa, con pochissimi movimenti di macchina e semmai solo qualche esperimento sull’uso del colore e del fuoco. Ciò che conferisce una marcata teatralità al film è la struttura: il testo consta infatti di 4 scene, fra loro nettamente separate, ossia ognuna con personaggi diversi: in ciascuna di esse si alternano ora due ora tre personaggi. Le quattro scene hanno in comune l’ambientazione, il Donbass appunto, e la sensazione di costante minaccia che si respira. Stante la partizione, viene spontaneo, in sede di giudizio critico, compiere una sorta di personalissima playlist che nel nostro caso finisce per privilegiare la sequenza iniziale e quella finale, forse perché maggiormente capaci di muoversi su un registro più variegato, trattandosi di scene collocate nel tenue discrimine fra tragico e comico, drammatico e grottesco.
Nel primo episodio un preside alticcio perché reduce da una festa scolastica viene fermato a un posto di blocco da due soldati, peccato che oltre a risultare sospetto per via del tasso alcolemico il personaggio non riesca a fornire ai soldati neanche il proprio passaporto ma solo quella della moglie e – per soprammercato – nel bagagliaio c’è anche un kalashnikov che lui, tuttavia, sostiene essere un’arma giocattolo. La tensione sale, le due guardie sembrano sempre sul punto di sbottare, ma la vicenda finisce per prendere una piega pacifica. Si apprezza di questo episodio la capacità della regista di gestire i tempi, le pause del dialogo, dei dialoghi e le molteplici e plausibili trasformazioni che i personaggi subiscono nell’arco dei pochi minuti, ciò che induce lo spettatore costantemente a riposizionarsi.
Il medesimo gioco viene realizzato nel quarto e ultimo episodio dove una donna evidentemente piuttosto benestante investe una gallina appartenente a una famiglia di contadini, ma la sua correttezza e disponibilità nel segnalare l’accaduto e nell’offrire un risarcimento, rischiano in più di un momento di degenerare in un piccolo gioco al massacro in cui, a prescindere dalla guerra in corso, si ha come la sensazione che sia in atto una feroce lotta di classe.
Meno riuscito il secondo episodio che vede protagoniste dapprima tre adolescenti o meglio giovani adulte che parlano dei loro amori o amorazzi e poi una delle tre che resta a parlare con toni a dir poco aggressivi con la propria nonna che pure l’ha allevata; un episodio un po’ troppo esplicito, un po’ troppo parlato e non particolarmente significativo, almeno a nostro avviso.
Un discorso a parte merita il terzo episodio, il più lungo di tutti. Ambientato in un angoscioso universo concentrazionario, racconta del sequestro di una giornalista ucraina da parte di un soldato russo che esibisce tutto il suo brutale machismo, il suo fascismo, il rifiuto categorico e sprezzante di quelli che lui stesso chiama i valori europei, insomma il russo spietato e bestiale divenuto un cliché fin dai tempi della liberazione dell’Europa dalla Germania nazista. Senonché la donna per salvare la pelle decide di mettere in atto una rischiosissima strategia, a suo modo, terapeutica, i cui esiti non riveliamo, ma che comporta diversi detour un po’ troppo studiati a tavolino e alla fine poco plausibili, dialettica vittima-carnefice con troppi cliché.
Si tratta nell’insieme di un film di qualità ambientato in un cronotopo destinato a polarizzare in modo estremo i valori e i disvalori degli individui. Probabilmente nulla di nuovo sotto il sole ma la sceneggiatura nel complesso lo sostiene.
In sala dal 28 aprile
Cast & Credits
Bad Roads – Le strade del Donbass (Plokyie Dorogi) – regia: Natalia Vorozhbit; sceneggiatura: Natalia Vorozhbit; fotografia: Volodtmyr Ivanov; montaggio: Alexander Chorny; interpreti: Igor Koltowsky, Andrey Lelyuyh, Vladimir Gurin, Anna Zhurakowskaya, Ekaterina Zhdanovich, Anastasia Parshina, Yuliha Matrosova, Maryna Klimova, Yuri Kulinich; produzione: Kristi Films; origine: Ucraina 2020; durata: 105′; distribuzione: Trent Film.