Kim e Jimmy
È sempre difficile scrivere di opere complesse e travolgenti come Better call Saul: perché ti entrano dentro, radicandosi così in profondità da considerarle una questione privata, convinti di non poter rielaborare a parole quanto vissuto, di non riuscire nemmeno dopo innumerevoli tentativi a rendere giustizia a tanta grandezza. Si diventa vittime di un coinvolgimento emotivo dolcissimo e al contempo devastante. Ed è, probabilmente, l’esperienza più vicina a un lutto, all’accettazione della fine di un’epoca.
Ma tutto finisce. Anche la storia di Jimmy McGill, che è quella di Saul Goodman e anche un po’ quella di Gene Takovic. La storia di un uomo comune, che sognava di diventare il miglior avvocato del mondo; la storia di un uomo comune con grandi ambizioni, scaltro come una volpe alle strette e inafferrabile affabulatore, destinato a cedere al proprio lato oscuro per sopravvivere. O forse no? Forse Jimmy McGill non è mai stato Jimmy McGill, perché è sempre stato Saul Goodman, nemmeno durante la resa dei conti, quando ha rinunciato a Saul – a sé – per rivendicare di essere un McGill. O, magari, Jimmy McGill è sempre stato colui che Saul Goodman desiderava veramente essere, la sua balena bianca, l’Eldorado di un uomo comune. Forse. In fine dei conti, perché ricercare la verità? La grande bellezza di un grande personaggio – e di un fantastico interprete – risiedono nella sua ambiguità, nella lotta contro e per se stessi, nei tic traditori di un volto provato, negli sguardi consapevoli, svuotati, speranzosi. Così Vince Gilligan e Peter Gould consegnano alla storia della televisione il più romantico tra i perdenti, il truffatore perfetto in grado di raggirare (quasi) chiunque, a cominciare da se stesso. Saul Goodman è un uomo buono, è un uomo meschino, è un grande avvocato e un pessimo professionista; Saul Goodman è Charlie Brown che si ribella, perché stufo degli scherzi di Lucy col pallone.
Ma non c’è solo Jimmy/Saul in Better call Saul. C’è un fuoco che brucia nell’occhio del ciclone: Kim. Kim è la luce che non deve spegnersi mai, è il faro per Jimmy, è l’ultimo baluardo che Saul vedrà sgretolarsi prima che la storia – quella di Breaking Bad, in primis – possa compiersi; Kim è la colonna portante del mondo di Jimmy, il suo contrasto e la sua sovrapposizione; Kim è l’ultimo grammo di grazia – splendida, insostituibile Rhea Seehorn! -, l’ultima boccata di sigaretta. Perché Better call Saul è anche una struggente storia d’amore: un amore impossibile, destinato a marcire e rifiorire solo per un breve e lancinante scambio di sguardi – il montaggio quasi solenne che compone l’ultima scena mentre Kim esce dal carcere, fissando quel Jimmy che non rivedrà più è pregno di una dolcezza annichilente -, promesse infrante e malinconici ricordi di un’altra vita. Perché Kim e Jimmy/Saul sono la stessa cosa, una cosa sola, principe drago e principessa.
La forza di Better call Saul – e di Breaking Bad, ovvio – è sempre stata la scrittura. Una scrittura perfetta, un meccanismo fondato sull’importanza del dettaglio con la precisione di un orologiaio. Ma, al di là della scelta inappuntabile di un cast privo di defezioni, della difficoltà di dover gestire personaggi di cui già, tra i comprimari più in vista, se ne conosce il destino e, di rimando, della solidità dei nuovi ideati per completare l’universo di Jimmy/Saul – il fratello Chuck e lo sfortunato Howard Hamlin su tutti -, l’opera di Gilligan e Gould è un capolavoro di regia. La macchina da presa coglie sempre l’attimo perfetto, sosta e si muove con classe, non c’è una sola inquadratura nell’arco di sei stagioni di cui si ha l’impressione che si sarebbe potuto scegliere meglio; è una regia costruita sugli sguardi e sui silenzi, sulla tensione e l’incomunicabilità tra i personaggi, sui dettagli mai fuori posto degli spazi chiusi e l’opprimente presenza del deserto fiammeggiante. Solo in quest’ultima stagione: il confronto finale tra Gus e Lalo nell’oscurità del laboratorio di metanfetamine che sarà; la pietà di Mike durante la sepoltura di Howard; il primo piano della nuca di Jimmy, mentre osserva Kim uscire dalla propria vita; il riflesso a colori dello spot di Saul Goodman sulle lenti degli occhiali di Gene, in un mondo eternamente grigio. Troppi altri andrebbero menzionati e anche pochi tra questi alcuni autori non riescono a concepirli nemmeno nell’arco di un’intera carriera.
Costretta nel piccolo schermo, ma al contempo perfetta per ritmo e capacità di adattare una visione cinematografica al format seriale, Better call Saul è anche una magistrale lezione di semplicità, a dimostrazione di quanto sia fondamentale per un autore non solo avere ben chiaro l’arazzo compiuto degli eventi, ma anche quanto potenziale custodiscono le semplici idee, se incasellate in una sequenza ideale; da qui la sensazione, a posteriori, di aver assistito al miglior spettacolo possibile, da cui l’impossibilità di concepire un rapporto causa-effetto differente. Scrittura e regia perfettamente sincronizzate; grandissimo cinema su piccolo schermo.
Così si chiude un’era, quella dell’universo “lanciato” da Breaking Bad. Così termina anche l’epopea di Saul Goodman, il secondo miglior avvocato del mondo. Così si conclude la più grande serie televisiva drammatica di tutti i tempi.
Disponile su Netflix.
Better call Saul – genere: drammatico; showrunner: Vince Gilligan Peter Gould; stagioni: 6 (conclusa); episodi: 13; interpreti principali: Bob Odenkirk, Jonathan Banks, Rhea Seehorn, Patrick Fabian, Michael Mando, Michael McKean, Giancarlo Esposito, Tony Dalton; produzione: Sony Pictures Television; origine: U.S.A., 2022; durata: 60′ minuti; episodio cult: 6×08-13.