Brado di Kim Rossi Stuart

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Come una sorta di seguito, coltivato per quasi vent’anni, di Anche libero va bene,teso e vibrante  esordio del 2006 , Brado, opera terza di regia a firma Kim Rossi Stuart, torna a confrontarsi, dopo il velato autoritratto dolceamaro di Tommaso (2016), con il peso specifico della paternità in un contesto esistenziale e, in questo caso anche paesaggistico, non riconciliato , aspro, selvatico. Brado, dunque, non è solo il nome del piccolo ranch costruito dall’ombroso e ostile Renato (interpretato dallo stesso Rossi Stuart), dentro il quale sono riversate tutta la rabbia e la frustrazione di un uomo abbandonato tempo addietro dalla moglie amatissima con due figli piccoli ( esattamente la stessa situazione di partenza di Anche libero va bene, dal quale tutti i personaggi riprendono peraltro i nomi): esprimere uno stato del cuore e della mente, un modo di essere e di stare al mondo, di calarsi nelle relazioni , anche le più fondanti e viscerali.

Se il Renato del primo film, operatore di macchina per il cinema con l’ambizione continuamente frustrata di avere uno sguardo più grande ed essere lui stesso un regista, imponeva al figlio undicenne la visione esasperata ed esasperante di un individualismo competitivo (contro risposta egotica alla nevrotica frammentazione di una generazione post ideologica),  il Renato del 2022 ha perso anche quella spinta allucinata ma comunque vitalistica: sembra non esserci un orizzonte nel suo campo visivo , ha prevalso solo la pulsione autodistruttiva di addestrare dei cavalli indomabili dai quali viene puntualmente disarcionato per spezzarsi un braccio o spaccarsi la schiena. Tommaso, quel figlio ragazzino, è qui parafrasato in un giovane uomo che porta nella sua fisicità secca e scattosa, e nel dolente ripiegamento su sé stesso, le ferite e i traumi di un’ infanzia segnata dagli antitetici genitori: alla presenza soffocante (letteralmente, con tanto di forzata prova di resistenza sott’acqua quasi fino allo sfiatamento) di un maschile paterno furente e impositivo, corrisponde l’assenza di un materno femminile malato di infantilismo (altro ponte nel tempo con Anche libero va bene, il volto ora bamboleggiante di stupore e malizia,  ora segnato da una maturità non elaborata, di Barbora Bobulova che torna a interpretare la madre); ed è nella fessura lasciata da due simili, incompatibili polarità che si sviluppa il bozzolo della personalità di Tommy, indeciso tra lo schernirsi dietro una pelle piena di lividi e cicatrici di un passato precocemente da rimuovere e il lasciarsi andare ad una necessaria, istintiva voglia di tenerezza.

Anche il film nella sua totalità sembra talvolta schiacciato da un tono altalenante e obliquo che passa dal dramma generazionale e familiare, al racconto di formazione tardo adolescenziale attraverso la disciplina e la concentrazione di uno sport come l’equitazione: è  il figlio che insegna al padre il valore dell’ascolto e della pazienza per comprendere la psicologia e la sensibilità del cavallo più selvaggio, smontando la logica arcaica e brutale del dominio e della sottomissione; a un certo punto si vira poi quasi verso la  commedia sentimentale (la garbata liaison tra Tommaso e una giovane, dolce e determinata, addestratrice di cavalli), per tornare, con uno scarto abbastanza squilibrato e un’ impennata finale virulenta, agli eccessi del melodramma, la trasfigurazione un po’ lirica della cronaca di una morte e di una riconciliazione annunciate.

Un seguito si diceva, ma forse troppo caricato in alcuni momenti di pathos e spento in altri più sciattamente descrittivi, con tutto uno sfondo di personaggi secondari scollati dalla profondità del nucleo principale, a cominciare da Viola, sorella di Tommaso e altra figlia di Renato, che appare con la funzione di un opaco raccordo narrativo: avulsa da uno spazio immaginabile di condivisione con i due uomini al centro della scena, ha una debolezza di presenza che non si integra con la costante tensione emotiva in primo piano, lasciando un’irritante impressionante di non essere significativa, nemmeno sullo sfondo . Stessa cosa si potrebbe dire, questa volta, del personaggio della Bobulova , in una partecipazione meno incisiva e motivata, a prescindere dalla durata in cui resta sullo schermo, visto che proprio la sua interpretazione in Anche libero va bene aveva ricordato,  in parte anche a un certo distratto e pigro cinema italiano, quanto la precisione di uno sguardo dolente, di un sorriso luminoso o di una sofferta entrata in scena possano contribuire a creare un memorabile momento di cinema.

Il continuo, inevitabile riferimento a quel debutto registico, fa emergere uno dei nodi paradossali di Brado: è infatti come se lo sguardo di Kim Rossi Stuart, con la maturità, abbia in qualche modo perso un’ asciuttezza che, prosciugando fino all’osso la struttura mélo, ne permetteva di toccare l’essenza e di osservarne la trasparenza, riscattando in parte tanto minimalismo deprimente da un lato e consolatorio dall’altro ereditato dal cinema degli anni ’90. Tentato con tutte le migliori intenzioni dalla suggestione di un paesaggio da western contemporaneo che però non riesce mai veramente a filmare (a parte forse una bella sequenza notturna), il buon Kim esce fuori dall’essenzialità degli spazi e dei sentimenti contenuti in uno scenario urbano, e si lascia disturbare da elementi derivativi di un’imperante cultura televisiva on demand dalla quale, esattamente come il cavallo indomabile del suo film, vorrebbe svincolarsi in una non chiarificata dialettica tra realismo e sublime.

Ma proprio in virtù del suo primo sguardo, e di una capacità che era sembrata folgorante nel penetrare l’area rarefatta che avvolge ineluttabili vincoli di sangue e di amore, anche in Brado, se si è disponibili a stabilire una connessione,  è possibile trovare dei momenti di verità e commozione. Due volti quasi identici che si specchiano l’uno nell’altro in momenti differenti della loro esistenza (il vibrante Saul Nanni, migliore scelta di cast, che fa Tommaso, tanto somigliante al Rossi Stuart fanciullo degli inizi); la ciclicità della vita che si chiude con un sorriso e si (ri) apre con un abbraccio tra il tempo dell’istante e quello della memoria; un corpo a corpo di un’inquadratura sempre più stretta dove si fondono e si confondono le nostre identità di figli, padri, neonati, adulti, accuditi e accudenti.

In sala dal 20 ottobre


Brado – Regia: Kim Rossi Stuart; Sceneggiatura: Kim Rossi Stuart, Massimo Gaudioso; Fotografia: Matteo Cocco; Montaggio: Alessio Rivellino; Interpreti: Kim Rossi Stuart, Saul Nanni, Viola Sofia Betti, Federica Pocaterra, Barbora Bobulava, Alma Noce; Produzione: Carlo Degli Esposti, Nicola Serra per Palomar; Durata: 117 minuti; Origine: Italia, 2022; Distribuzione: Vision Distribution.

 

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