Club Zero di Jessica Hausner

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Recensendo, un annetto fa, Triangle of Sadness di Ruben Östlund feci una lunga premessa, corredata di molti nomi, molti titoli e molte date, sulla funzione di adozione, legittimazione e riaffermazione esercitata dal Festival di Cannes nell’ambito del cinema d’autore europeo. Nella fattispecie trattata a suo tempo, rientra (quasi) a pieno titolo Jessica Hausner, la cinquantunenne regista viennese che a Cannes, nel maggio di quest’anno, ha presentato il suo sesto lungometraggio, intitolato Club Zero, il secondo girato in lingua inglese, dopo il precedente Little Joe, risalente al 2019, secondo un ritmo ormai consolidatosi, un film ogni quattro/cinque anni.  Il primo film, intitolato Lovely Rita  (2001), era stato subito accolto sulla Croisette nella sezione “Un certain regard”; nella medesima sezione, Hausner tornerà  altre due volte, nel 2004 con Hotel e nel 2o14, con il suo quarto film, Amour Fou un notevole biopic dedicato a Henriette Vogel, la donna che decise di suicidarsi insieme a Heinrich von Kleist. Con il quinto film Little Joe Hausner approda al concorso principale ed Emily Beecham, la protagonista, vince la Palma d’Oro come migliore attrice. L’unico film che non è passato a Cannes bensì a Venezia è stato il terzo, il notevole Lourdes (2009), che venne poi anche distribuito in Italia, al pari di Little Joe e che a oggi, pur non essendo stato presentato a Cannes, è il film che ha ricevuto il maggior numero di riconoscimenti.

A distanza di qualche mese dalla prima a Cannes, arriva dunque in sala anche Club Zero;  anch’esso è – come detto – entrato in Concorso  dove – spulciando un po’ in giro – non si può tuttavia dire che abbia ottenuto una stampa particolarmente positiva, talora vere e proprie stroncature, che almeno in parte condivido.

Prima di entrare nel merito del film, ancora due parole sulla filmografia, pur nella diversità dei temi trattati, molto compatta di Jessica Hausner, alla quale interessano primariamente tre cose: le relazioni malate all’interno della famiglia e di altri microcosmi sociali come la scuola, il mondo del lavoro; un particolare focus la regista lo dedica al ruolo della donna all’interno di queste relazioni malate; viene altresì rivolta una specifica attenzione non priva di tangenze con il cinema di genere (horror, thriller, fantascienza, soprattutto) a scenari non altrimenti definibili che come distopici: l’hotel alpino rigorosamente haunted da far invidia allo Overlook Hotel dove la protagonista Irene viene letteralmente fagocitata da un mondo maledetto e perverso in Hotel, il “mostro” Rita che uccide i genitori in Lovely Rita;  la distopia storica della Restaurazione metternichiana in Amour fou, le sperimentazioni  laboratoriali, biologico-genetiche alla ricerca del fiore che induce felicità in Little Joe, Lourdes come una colossale distopia nel film omonimo.

Mia  Wasikowska

A questa sostanziale coerenza tematica corrisponde una ancor più rigorosa coerenza formale che contraddistingue l’opera di Jessica Hausner che l’ha fatta, al netto della provenienza viennese,  apparentare al cinema dell’altra capitale di lingua tedesca, ossia Berlino, specificamente al cinema della cosiddetta “Berliner Schule”. I tratti caratteristici del cinema di Hausner sono l’estremo rigore nella composizione delle inquadrature, grazie anche al collaboratore storico, il direttore della fotografia, anch’egli viennese, Martin Gschlacht, il montaggio dal  ritmo spesso straniato e straniante di cui è titolare la montatrice Karina Riessler (anch’essa storica collaboratrice); l’importanza annessa ai costumi e alle scene, di cui è responsabile Tanja Hausner, sorella della regista. Meno importante forse è, soprattutto dal punto di vista squisitamente testuale, la sceneggiatura, sia che la regista scriva da sola, sia che si faccia accompagnare dalla sceneggiatrice francese Géraldine Bajard, con cui Hausner ha collaborato tre volte su sei, anche nel presente film

Sia l’estremo rigore formale, sia la marcata inclinazione al pessimismo e alla distopia, che incontriamo non di rado nella cultura austriaca contemporanea – restando al cinema pensiamo a Ulrich Seidl, ma anche a Michael Haneke, originario di Monaco ma di fatto socializzato cinematograficamente in Austria, se poi si passa alla letteratura c’è l’imbarazzo della scelta: da Thomas Bernhard a Elfirede Jelinek – li ritroviamo tutti, e al massimo grado, in Club Zero. Che racconta di una scuola di élite volta a formare consumatori di cibo consapevoli.

L’istituto, coadiuvato da un potentissimo comitato formato dai genitori che pagano rette salatissime, ha affidato la formazione di questi giovani, a vario titolo, problematici a una insegnante che risponde al nome di prof.ssa Nowak, un personaggio a dir poco inquietante che – lo apprendiamo quasi subito – è affiliata a una setta (non saprei come definirla altrimenti) che va ben oltre il mandato educativo dell’istituto perché pratica (e intende insegnare) il digiuno completo, di qui la parola “zero”. La professoressa Nowak (interpretata dall’attrice australiana Mia  Wasikowska) è una grande manipolatrice che ha gioco facile perché i ragazzi che finiscono sotto le sue grinfie provengono da situazioni familiari non esattamente ideali, talché i disturbi (alimentari, ma non solo) di cui, fin dall’inizio soffrono, trovano le loro cause nelle famiglie stesse, su cui la regista, pur nel contesto di un racconto assolutamente algido, non esita a scagliare qualche strale satirico, sarcastico, soprattutto laddove viene mostrata la totale cecità in merito alla pericolosità dell’insegnante e dell’istituto nel suo complesso, che la preside non è minimamente in grado di governare.

Ciò detto il film si incista prestissimo su questo assunto, è clamorosamente ripetitivo finendo per mostrare un dato che ripercorrendo a ritroso l’intera filmografia di Hausner appariva fin dall’inizio una minaccia incombente: ridondanza e manierismo che qui sfociano ben presto in una noia a dir poco mortale. A nulla vale l’indicazione della regista che il film si ispirerebbe al Pifferaio Magico dei Fratelli Grimm, fiaba inquietante quanto si vuole, ma comunque breve e a suo modo anche leggera. Il film è invece grevissimo e si compiace delle simmetrie, dei lenti ma ineluttabili movimenti di macchina, di una recitazione fredda e di un profluvio cromatico di costumi in cui, se non sembrasse un paradosso, si ha la sensazione di assistere, quanto a artificialità, a un film di Wes Anderson.

In sala dal 9 novembre


Club Zero; regia: Jessica Hausner; sceneggiatura: Jessica Hausner, Géraldine Bajard; fotografia: Martin Gschlacht; montaggio: Karina Riessler; costumi: Tanja Hausner; interpreti: Mia  Wasikowska (prof. ssa Nowak), Sidse Babett Knudsen (la preside), Elsa Zylberstein (madre di Elsa), Mathieu Demy (padre di Elsa), Camilla Rutherford (madre di Fed); produzione: Coop99, BBC Film,  Essential Films, Parisienne, Paloma Productions, Gold Rush Films, Cinema Inutile, Austrian Film Institute; origine: Austria, Inghilterra, Germania, Francia, Danimarca, Qatar 2023; durata: 110′; distribuzione: Academy Two

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