Quello di selezionare e mostrare opere – diciamo con un certo margine d’approssimazione – d’impegno politico, da sempre, è stato uno degli elementi più caratterizzanti del programma della Berlinale. Tanto da provocare anche degli incidenti diplomatici gravi: al Festival nel 1979, la presentazione dei celebri Cancelli del cielo di Michael Cimino provocò uno scandalo internazionale: la delegazione sovietica lo definì un “insulto al popolo del Vietnam” con la conseguenza di ritirarsi dalla manifestazione in modo dimostrativo. E non c’è dubbio che i russi se fossero stati presenti quest’anno a Berlino avrebbero fatto la stessa cosa vedendo in programma il per altro mediocre documentario di Sean Penn Superpower .
Battute a parte, quanto detto sul taglio “politico” del Festival vale già dai primi giorni anche per il Concorso del 2023 e in particolare riguardo al tema certamente più che scottante della post-colonialismo. Infatti venerdì era passato il modesto The Survival of Kindness – valutazione stelle **(*) – di Rolf de Heer una favola morale altamente metaforica che mescola insieme, in un gran mischione acchiappatutto, tanti problemi attuali tra cui quello citato ma anche l’ecologia e la condizione della donna, per interrogarsi su “Cosa resta della nostra umanità?”
Il regista olandese-australiano ci racconta di una prigioniera, BlackWoman, interpretata da una efficace attrice aborigena Mwajemi Hussein (da tenere d’occhio per il Palmares finale del Festival), che viene abbandonata in mezzo al deserto (dovremmo essere in Tasmania) su una roulotte, chiusa dentro una gabbia, con lo scopo di lasciarla lì a morire. Animata da una disperata volontà di resistere, la protagonista, però, riesce a scappare, per poi attraversare, in un lungo calvario, pestilenze, violenze e persecuzioni, dal deserto alle montagne e alle città, per trovare infine … un’altra prigionia (ma non riveliamo di cosa si tratta né della soluzione narrativa scelta per il finale). Insomma un film tanto apocalittico quanto altamente scontato a partire dalle prime suggestive immagine di BlackWoman prigioniera nella gabbia ma a parte gli affascinanti paesaggi più o meno distopici, c’è poco altro da apprezzare, se non le buone intenzioni, in un’opera che si lascia dimentica a velocità spaziale e senza stampare nella memoria altro che labili segni di senso – per altro è distribuita internazionalmente dell’italiana Fandango.
Molto ma molto più efficacemente, in bilico tra amore, disperazione e denunzia politica, è, invece, il debutto di Giacomo Abbruzzese che nel suo Disco Boy appare molto vicino ad atmosfere tipo Cuore di tenebra di Joseph Conrad o forse meglio a Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Tra l’altro il regista tarantino, come tanti altri colleghi più o meno della sua generazione come Luca Guadagnino oppure Andrea Pallaoro, è dovuto andare all’estero per trovare i soldi per il realizzare il suo primo film che è di produzione francese – una volta era l’Italia ad attirare e lanciare i talenti stranieri…
Due righe di trama: fuggito dalla Bielorussia per trovare in Europa un destino migliore, Aleksei (Franz Rogowski) dopo un avventuroso viaggio attraverso l’Europa, riesce a raggiungere Parigi e sceglie di unirsi alla Legione Straniera in cambio della promessa della cittadinanza francese – tra l’altro, come dice nel corso di un interrogatorio, ha imparato il poco francese che mastica, dai film.
Lontano dall’occidente, invece, nel Delta del Niger, Jomo (Morr Ndiaye), un attivista rivoluzionario impegnato nella lotta armata per difendere la sua comunità, lotta contro le compagnie petrolifere che ne minacciano la vita. Alla guida del suo gruppo, un giorno, il rivoluzionario rapisce dei cittadini francesi con la conseguenza che l’unità di Aleksei viene inviata in loco per cercare di liberare i civili. L’incontro tra i due uomini (ma c’è di mezzo anche una donna di colore, Udoka alias Laëtitia Ky, e un night club parigino) produce delle conseguenze inaspettate al corso degli eventi e i destini di un soldato di professione e di un guerrigliero si intersecheranno a causa di una guerra insensata tra la vita, la morte e un improvviso, folgorante amour fou.
In questa sua prima prova, confrontandosi con il problema dell’'”alterità” e di come le situazioni nascono da tanti fattori spesso imponderabili, Giacomo Abbruzzese dimostra un notevole talento visivo di messa in scena e di direzioni degli interpreti – tra l’altro da segnalare, in primis, ottima la prova del protagonista, il tedesco Franz Rogowski che per la seconda volta si trova ad essere diretto da un regista italiano dopo Freaks Out (2021) di Gabriele Mainetti.
Anche grazie alle belle scene coreografate da Qudus Onikeku e al potente impatto sonoro delle musiche elettroniche di Vitalic, Disco Boy è così un’opera di qualità fuori da cliché banalmente realisti che, sotto il segno sacrale dell’utopia, racconta delle volontà forse irrealizzabili (purtroppo) nei confronti di una possibile vita migliore. Unico neo che si può forse rimproverare a Disco Boy, è forse una certa debolezza della sceneggiatura, a volte astratta, non sempre all’altezza del progetto narrativo e non sempre stringente: al di là della folgorante mise en scene, essa tende a divagare un po’ troppo, e in maniera astrattamente filosofica, in questo viaggio, tra l’onirico e il vero, verso l’oscurità esistenziale dell’animo umano e dei suoi incunaboli.
In sala dal 9 marzo 2023
Disco Boy – Regia e sceneggiatura: Giacomo Abbruzzese; fotografia: Hélène Louvart; montaggio: Fabrizio Federico, Ariane Boukerche, Giacomo Abbruzzese; musica: Vitalic; coreografia: Qudus Onikeku; ; interpreti: Franz Rogowski (Aleksei), Morr Ndiaye (Jomo), Laëtitia Ky (Udoka), Leon Lučev (Paul), Matteo Olivetti (Francesco), Robert Więckiewicz (Gavril), Michał Balicki (Mikhail); produzione: Lionel Massol, Pauline Seigland per Films Grand Huit; origine: Francia/Italia/Belgio/Polonia, 2023; durata: 91 minuti; distribuzione: Lucky Red.