Festa del cinema di Roma: McVeigh di Mike Ott (Freestyle)

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Per molti versi gli anni Novanta hanno segnato una pagina nera della storia americana. Prima della fatidica data dell’undici settembre, che ha rappresentato uno spostamento dello sguardo con cui l’America ha guardato al fenomeno del terrorismo, identificandolo, di fatto, con quello di matrice islamica, numerosi sono stati gli episodi che hanno destato sconcerto nella psicologia sociale di questa nazione. Molti di essi sono stati raccontati dal cinema, anche in tempi recenti, come visto a Venezia con il film The Order di Justin Kurzel, che però propone sullo schermo cinematografico un fatto di cronaca ignoto ai più.

Certamente di maggiore eco mediatica, per la sua efferatezza, è stata la strage avvenuta nella Columbine High School, nella quale due studenti armati di armi automatiche, uccisero 12  studenti loro coetanei e un professore. Su questo sanguinoso fatto di cronaca il regista Michael Moore realizzò, nel 2003, Bowling a Columbine, mentre, nello stesso anno, uscì nei cinema Elephant di Gus Van Sant, che a quei fatti si ispirava. Un film, quest’ultimo, a cui Mike Ott evidentemente guarda, nella sua controversa e spiazzante ricostruzione dell’attentato  che ad Oklahoma City , nel 1995, ha raso al suolo un edificio federale,  provocando centinaia di vittime.

Timothy McVeigh (Alfie Allen) è un ex veterano di guerra che vive solo in una piccola e modesta casa situata in mezzo ai boschi, nell’anonima provincia americana. Si mantiene facendo lavori di fortuna e partecipando a piccole fiere di vendita di armi. A parte Terry (Brett Gelman), anche lui ex veterano di guerra, con cui condivide la passione per il poligono di tiro e gli esplosivi fatti in casa, non ha molti amici. Ha avuto in compenso passate frequentazioni negli ambienti del suprematismo bianco, nelle cui fila ha conosciuto Richard (Tracy Letts), condannato a morte per atti terroristici, che va spesso a trovare in prigione. Fuori dal poligono conosce Cindy (Ashley Benson), un divorzio alle spalle, con la quale instaura una storia d’amore destinata a non durare. Nonostante l’apparente normalità di una vita come tante, all’apparenza integrata, seppur vissuta ai margini della società, nell’animo dell’ex veterano cova una rabbia e un risentimento insanabili contro il governo federale degli Stati Uniti, probabilmente contro il prossimo. L’uomo ha in animo di attuare un attentato terroristico eclatante, proprio nel giorno dell’anniversario della cosiddetta strage di Waco (avvenuto il 19 aprile 1993), dove FBI e polizia  strinsero d’assedio una comunità di uno dei tanti gruppi della galassia suprematista, da cui ne scaturì un incendio nel quale trovarono la morte 76 persone di cui ben 25 bambini.

Grazie anche alla fotografia plumbea di Daniel Vignal, è di questa atmosfera funerea che tenta di farsi carico il film di Ott, sin dalle prime sequenze, dove assistiamo a un insistito pedinamento dell’uomo che percorre le strade dell’ Oklahoma a bordo della sua vettura. Un pedinamento dell’auto, insistito, ricorrente, a volo d’uccello e a debita distanza, come se vi fosse l’intenzione di dare un senso alle traiettorie erratiche che l’uomo traccia. Senza tuttavia riuscirci davvero, perché Timmy, come si fa chiamare dai pochi che lo conoscono, è probabilmente un mistero anche per se stesso. Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma, per citare Churchill.

Il personaggio, perenne berretto da baseball a coprirne in parte i lineamenti, è delineato al grado zero, talmente chiuso da non permettere in alcun modo allo spettatore di provare la benché minima immedesimazione. Ermetico e impermeabile allo sguardo, ma anche ai sentimenti di Cindy che presto allontana, sentendosi da lei minacciato nella sua intima solitudine. La sua vita è fatta di una routine senza segni di vitalità (il bar, il poligono di tiro, la fiera delle armi), percorre le strade con il pilota automatico, come uno zombie al volante, come fanno i protagonisti della pellicola di Van Sant mentre attraversano i corridoi scolastici. Si dimostra glaciale distacco anche nelle situazioni di pericolo, situazioni in cui anche Terry, anch’egli veterano di guerra, viene sopraffatto.

C’è questa America profonda, povera e lasciata ai margini, che vive nella paranoia, nella paura dell’uguale a se stesso e del diverso, in un rancore apparentemente senza spiegazione, che la pellicola porta sullo schermo, facendolo senza facili filtri spettacolari. La tensione è palpabile per l’intera durata del film, anche se, di fatto, non succede nulla sino al tragico e ineluttabile epilogo; almeno non nella chiave spettacolare e consolatoria di cui si è detto. Un epilogo anch’esso sottratto alla vista dello spettatore.

E proprio per questo suo tenersi a distanza, per questa volontà di non offrire nessun tipo di nesso causale, nessuna giustificazione medica e psicologica (come succederebbe, in modo morboso, in TV), nessun appiglio sia con l’attentatore che con le vittime, che il film di Mike Ott risulta divisivo, per molti versi insostenibile.

Un film lucido e senza compromessi. Piaccia o non piaccia.


McVeigh – Regia: Mike Ott; sceneggiatura: Mike Ott, Alexis Gioulakis; fotografia: Daniel Vignal; montaggio: Dagmawi Abebe; musica: Adam Weiss; interpreti: Alfie Allen, Brett Gelman, Ashley Benson, Anthony Carrigan, Tracy Letts; produzione: CinemaWerks, Rouge Wave Pictures, Symbolic Exchange; origine: USA, 2024; durata: 90 minuti.

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