Con il termine pataffio si intende la dicitura antica e ormai desueta di epitaffio, ovvero quell’iscrizione che è possibile trovare talvolta sulle tombe dei defunti, e che in qualche modo riassume il senso di un’ esistenza, una sorta di motto post mortem. E in effetti Il pataffio ( che contiene in sé anche un’accezione grottesca e sardonica), il nuovo film di Francesco Lagi ispirato all’omonimo romanzo di Luigi Malerba del 1978 e presentato in Concorso al Festival del Cinema di Locarno, è attraversato da una costante e ineluttabile minaccia di morte, dovuta, principalmente ma non solo, all’ambientazione in un Medioevo arido, dissacrato, materialista.
Siamo lontani da qualsiasi tensione intellettuale o metafisica: fin dalla prima inquadratura orizzontale dall’alto dentro la quale transita, come una carovana di formiche sotto l’occhio lucido di un entomologo, una sgangherata compagnia cortigian-milateresca; al suo vertice troviamo il pusillanime e piccolo tiranno Marconte Berlocchio erede, dopo un matrimonio di convenienza con l’opulenta e insofferente Bernanda, figlia di un potente aristocratico, di un feudo decadente situato in un’imprecisata e sperduta regione d’Italia ( la connotazione favolistica e anti storica è espressa soprattutto dalla lingua che parlano i personaggi, una commistione di italiano arcaico, dialetto ciociaro e latino maccheronico). Data questa situazione di base, la più ovvia risonanza cinefila suggerisce l’ottica picaresca e goliardica con cui Mario Monicelli ne L’Armata Brancaleone aveva voluto ribaltare la percezione comune e un po’ semplicistica del Medioevo come epoca di oscurantismo e orrore ( ribaltamento che poi sarebbe stato tradotto in una chiave ancora più greve e paradossale da un certo filone della commedia sexy degli anni ’70). In realtà siamo molto distanti dall’impulso vitalistico, famelico ed eccessivo del condottiero fanfarone, tra anti epica e compiacimento, interpretato da Vittorio Gassman ( e qui c’è il figlio Alessandro nel ruolo di un prete servile e un po’ becero che ricorda, soprattutto nell’aspetto e nel modo di esprimersi, quello sempre interpretato da Gassman padre nell’apocalittico Quintet di Robert Altman); le immagini di Lagi, tutte virate su un bianco polveroso e assolato e su un blue notte tenue e lunare, evocano un mondo di fantasmi o aspiranti tali, di gente che è morta e che sta per morire da un momento all’altro ( “è ito!” sente ripetersi in continuazione il Marconte quando fa il censimento per le tasse tra i quattro poveracci suoi sudditi che ancora abitano quel regno di pietre e siccità).
Non c’è più nessuna missione, nessuna gloria neppure vana, neanche un donchisciottesco mulino a vento contro cui andare a sbattere, proiezione amara e poetica, e proprio per questo fantasmatica e visionaria, di un ideale, di un’illusione, di un sogno. Il mondo de Il pataffio, per la dimensione dell’attesa da cui è pervaso, è più vicino ad una versione da focolaio e da operetta de Il deserto dei Tartatari di Dino Buzzati, con la differenza che in queso caso non c’è il tempo di un respiro esistenziale e di una riflessione etica; ogni gesto è funzionale ad una lotta per la sopravvivenza, ad una gara di furbizia tra padroni e servi, tra sfruttatori e sfruttati , sempre e comunque ripresi sotto il medesimo cielo di una miseria umana alla quale non è più concesso un sussulto di pietas o empatia, ma solo lo scacco del grottesco e del paradosso. Cosi il personaggio di Migone, il capopopolo di quel villaggio di incarogniti dalla fame e dalla povertà, vedrà smascherata contro di sé la propria eloquenza e saggezza per opporsi alle vessazioni del Marconte, da un elementare, animalesco, istintivo bisogno di cibo, durante una sequenza, quella del banchetto a base di galline arrosto, che ben mette in scena come il piacere e il soddisfacimento dei sensi possa stravolgere la ricerca di un senso e di una prospettiva.
In questo comico mausoleo di ideali e di orizzonti, le figure più pure e pulsanti, le uniche che appaiono non bloccate nella fissità della maschera e nella condanna del ruolo, sono quelle di Manfredo e Ulfredo, i due soldati amanti capaci di scambiarsi un bacio di tenerezza e passione o di donarsi un ultimo saluto di dignità e riconoscimento; ma anche Bernarda, pur nel pallore dipinto del volto e nella carnalità di un corpo che sarebbe piaciuto forse al Fellini del Casanova, rivendica un desiderio che è impaziente e presente contro le astrazioni e le attese e, se vogliamo, squarcia il velo ipocrita di un potere maschile che si riduce a impotenza.
Il pataffio è dunque un’opera molto più stratificata e complessa rispetto all’ apparenza da divertissement fuori tempo massimo, ma il rischio è che tutto sia troppo diluito nell’articolato racconto di quasi due ore e che alcuni spunti interessanti rimangano solo in potenza, schiacciati dal peso di una narrazione chiusa in se stessa e da uno sguardo che resta indeciso tra la fascinazione estetica e malinconica per la ricostruzione di un immaginario e l’affondo allegorico su una contemporaneità che ha a che fare con il rapporto tra politica, potere e linguaggio; o, più precisamente, un corto circuito tra questi tre elementi che ha generato un caos individualista e isterico, da Si salvi chi può(la vita), detto godardianamente, in cui ci troviamo senza sapere se siamo più vittime o più carnefici.
La sensazione di questa incertezza corre il rischio di provocare in chi guarda una sterile e indifferente ammirazione e pone il dubbio che il clima mortifero non sia altro che l’emanazione di una nuova frase tombale incisa sul sepolcro della defunta commedia all’italiana. Qualcosa di cui ci eravamo già accorti quasi cinquant’anni fa.
In Concorso al Festival di Locarno, in sala dal 18 agosto.
Il pataffio – Regia e sceneggiatura: Francesco Lagi tratto dal romanzo Il pataffio di Luigi Malerba; fotografia:Diego Romero Suarez Llanos; montaggio: Stefano Cravero ; musica: Stefano Bollani; interpreti: Lino Musella, Giorgio Tirabassi, Alessandro Gassman, Valerio Mastandrea, Viviana Cangiano, Giovanni Ludeno, Vincenzo Nemolato; produzione: Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, Vivo Film, Rai Cinema, Colorado Film Production, Umedia; origine: Italia, 2022; durata: 117′; distribuzione: Vivo Film e Rai Cinema.