Al centro di una retrospettiva del Festival Filmmaker (qui il programma) e poi di altre città italiane (vedi sotto) Ruth Beckermann, nasce nel 1952 ed è la figlia di due sopravvissuti della Shoah, Salo e Betty Beckermann che ripetutamente vengono intervistati nei suoi film, soprattutto in quelli dedicati a temi ebraici e viennesi.
Salo Beckermann in particolare è originario di Czernovitz, la capitale della Bucovina, oggi Černivci, la città natale di Paul Celan. Salo gestirà, quasi fino alla morte avvenuta a 85 anni nel 1996, un negozio di tessuti. La madre Betty, originaria di Vienna, emigrerà dopo l’Anschluß in Israele, tornandovi, originariamente solo in visita, dopo la fine della seconda guerra mondiale; qui conoscerà Salo tentando a più riprese di convincerlo a tornarsene insieme in Israele. Senza successo. L’interesse per Israele finirà tuttavia per coinvolgere anche la figlia che non solo studierà seppur in parte e trascorrerà del tempo a Tel Aviv. A Israele sarà anche dedicato il film Nach Jerusalem (Verso Gerusalemme) del 1990. La terza città in cui soggiorna Beckermann è New York soprattutto per ragioni legate alla sua tesi di dottorato, che tratta della questione femminile nelle riviste newyorchesi del primo Novecento. È qui che avverrà, come racconta la regista a più riprese, il passaggio di fatto definitivo dalla sfera in prevalenza saggistica alla sfera in prevalenza visiva, ciò accade in primo luogo attraverso il medium fotografico.
Fatto ritorno a Vienna nel 1977 per addottorarsi, Beckermann inizia, in quel medesimo anno, anche l’attività documentaria, girando e producendo un lungometraggio e due mediometraggi, incentrati rispettivamente sull’occupazione, durata qualche settimana, di un’area urbana che il comune di Vienna, a fini di profitto, aveva destinato a un colosso del tessile, una breve fase che fa diventare gli ampi locali dell’Arena (il film s’intitola infatti Arena besetzt [Arena occupata], 1977, della durata di 75 minuti) il luogo di un’intensa utopia politica e culturale; quindi, nel 1978, la documentazione di uno sciopero presso la fabbrica di pneumatici Semperit di Traiskrichen (Auf a mol a Streik [All’improvviso uno sciopero] del 1978 della durata di 23 minuti) e nel 1981 il racconto del tentativo da parte dei cittadini di Judenburg in Stiria di impedire la delocalizzazione di un’acciaieria (Der Hammer auf der Wies’n da draußen [Il martello sul prato là fuori], di 41′). Si tratta di tre documentari politici nei quali la posizione della regista, accompagnata sia a livello ideativo che produttivo dal fido Josef Aichholzer (originario di Villach e di due anni più vecchio), emerge con assoluta chiarezza, ciò che almeno in parte va a discapito della complessità dei testi, sia sul piano della forma che su quello del contenuto, anche se soprattutto Arena besetzt non è privo di elementi di originalità che cercano di raccontare in modo alternativo l’arte alternativa cui gli occupanti tentarono di dare vita (fa impressione vedere le immagini sgranate che documentano l’esibizione di Leonard Cohen che canta in jiddisch). Con Aichholzer, Beckermann darà vita a una importante, celebre e ancora esistente realtà produttiva e distributiva denominata “Filmladen”.
È con il primo lungometraggio Wien Retour del 1983 (89 minuti) che Ruth Beckermann perviene a quello che a tutt’oggi resta il suo “genere” preferito frutto della combinazione di due elementi tematici salienti: 1) Vienna nel quadro di un interesse molto marcato nei confronti delle continuità e discontinuità del presente rispetto all’Austria del Novecento, studiata appunto attraverso le tracce lasciate nella contemporaneità; 2) la storia della cultura e dell’identità ebraica, con – anche qui – riferimenti al passato, al presente e, se possibile, anche al futuro, ciò che rende inevitabile per la regista affiancare alla dimensione più squisitamente austriaca (viennese, che peraltro resterà anche quella maggioritaria, come dimostrano oltre ai film anche i libri scritti da Beckermann) una sfera geopolitica assai più ampia che va dalle lontane regioni dell’Impero Austro-Ungarico, per quanto attiene al passato, a Israele per quanto attiene al presente e a un solo potenziale futuro.

Wien Retour è incentrato su una lunga, interessantissima, intervista di cui è protagonista il sindacalista e politico comunista Franz Weintraub (1909-1994) che dai tempi dell’emigrazione nel 1938 prese il cognome di West. La sua è la storia di un ebreo piccolo borghese e assimilato, figlio di genitori provenienti dall’Est Europa (il padre dalla Bucovina, la madre dalla Slovacchia) che dopo esser nato e aver vissuto per un certo periodo a Magdeburgo si trasferisce a Vienna dove vive dalla fine della prima guerra mondiale al 1938 appunto, salvo poi tornarvi a conclusione del secondo conflitto. Incentrata sul decennio 1924-1934 la biografia di West, sobrio e proprio per questo straordinario affabulatore, è come lo stesso protagonista dice più volte una biografia esemplare: di una socializzazione di sinistra, destinata dagli anni ’30 in avanti a radicalizzarsi, stante l’incapacità del partito socialdemocratico di far fronte alla massiccia fascistizzazione dello stato austriaco (West segnala quanto l’assalto al Palazzo di Giustizia del luglio del 1927 abbia costituito un autentico punto di svolta nella consapevolezza di tale impotenza, di tale ineluttabilità), di una socializzazione ebraica. Solo sul finire, dopo che la voce fuori campo ha raccontato anche tramite l’utilizzo di fotografie che cosa ne è stato di West dall’anno dell’esilio fino al giorno d’oggi (il ritorno a Vienna, il lavoro politico, la presa di distanza dal Partito Comunista Austriaco, all’indomani della repressione della Primavera di Praga da parte dei carrarmati sovietici che la KPÖ aveva invece avallato) il protagonista racconta che cosa è successo a partire dal 1938 e per tutto il periodo della guerra a molti dei suoi parenti. Solo sul finire si viene dunque a parlare di shoah, fino ad allora un argomento in fondo neanche sfiorato, eppure in qualche modo costantemente sottinteso. L’inesausta e di nuovo oltremodo sobria elencazione paratattica dei tragici destini dei parenti più stretti, straniata attraverso la registrazione compiuta da West e poi fatta ascoltare all’autrice e all’autore del documentario presenti di spalle conclude il testo, peraltro incorniciato, all’inizio, dalla ripresa di un treno che entra a Vienna e alla fine da un treno che lascia la città – inquadrature del resto tipiche del lavoro nomadico di Ruth Beckermann. Ebbene in Wien Retour c’è – come si diceva – già molto di ciò che alla regista interessa davvero. Diciamo che le principali trasformazioni a cui assisteremo, riguarderanno più il progressivo raffinamento della forma che un sostanziale cambiamento della sostanza. Qui la forma, almeno per quanto attiene al nucleo forte del film ossia l’intervista a West non si può che definire ancillare, alternando di fatto due sole diverse inquadrature dell’intervistato. A movimentare il film Beckermann ricorre a molto footage, ovvero materiale d’archivio, costituito di film, propaganda, giornali d’epoca, secondo una modalità classica del cinema documentario d’impianto storico – materiale a cui da qui in avanti ricorrerà sempre meno spesso.
La vera svolta, anche sul piano formale e strutturale, avviene con il film successivo, ossia con Die papierene Brücke (Il ponte di carta) del 1987, autentico concentrato della poetica di Beckermann. Il film, pronunciatamente frammentario, è in prima battuta il resoconto di un viaggio alla ricerca dei luoghi da cui proveniva Salo Beckermann, il padre della regista, anche se a Czernowitz la figlia di fatto non arriva, soprattutto per ragioni legate a un’oggettiva inaccessibilità della città oggi appartenente all’Ucraina, all’epoca Unione Sovietica, visto che stiamo parlando di un’epoca in cui la cortina di ferro non era ancora caduta. Giunta a un passo dalla frontiera appunto, Beckermann racconta, in voce over, che nella piazza principale dell’ultima località rumena, la cittadina di Siret, situata nella parte meridionale della Bucovina, si trovava fino a poco tempo prima il cartello segnaletico indicante la distanza di 40 km da Czernowitz, un cartello che è stato rimosso per volontà delle autorità sovietiche. In conseguenza dell’impossibilità di raggiungere la città natale del padre, Beckermann si lascia andare a quanto di più vicino a una dichiarazione di poetica. “È una buona cosa non possedere immagini di determinati luoghi. Così restano solo I ricordi: le storie del nonno che allevava i cavalli, le storie del duplice tramonto di una città, storie di recinzioni e di attraversamenti notturni del confine verso la Romania, verso l’Ungheria e finalmente verso l’Austria.
La shoah fin qui deliberatamente taciuta entra in scena nella sequenza lunga e complessa che apre la seconda parte del film, quasi venticinque minuti tutti ambientati in Jugoslavia, precisamente nella zona di Osijek (oggi Croazia) dove la regista è andata a girare durante le pause di lavorazione di un film americano della CBS ambientato a Theresienstadt, in un set ricostruito all’uopo, quel campo di concentramento dove la nonna, come ci era stato detto all’inizio e ci viene ribadito in questa occasione, si era rifiutata di lasciarsi trasportare entrando così in clandestinità, una cosiddetta U-Boot-Jüdin.
Mi pare di straordinario interesse che solo a metà film Beckermann venga sì a parlare di shoah (di fatto il tema incombente dell’intera pellicola) ma che decida di farlo in modo mediato, indiretto. La cosa è ancor più ingarbugliata se si pensa che al centro di questa lunga sequenza si trovano le comparse, inviate in larghissima parte da Vienna e – con un’operazione a dir poco delicatissima – con tutta evidenza “selezionate” in base alla corrispondenza con certi cliché etnici a cominciare dal naso e dalla bocca. Si tratta in realtà proprio di persone appartenenti a diverse generazioni (di alcune delle quali viene, seppur per sommi capi, raccontata la biografia) espatriate, esse stesse entrate in clandestinità oppure generate da sopravvissuti dalla shoah che, appunto, nelle pause di lavorazione raccontano le proprie esperienze oppure si dilungano con accanimento, con tenacia a discutere che cosa avrebbero potuto/dovuto fare qualora si fossero trovate nelle condizioni dei personaggi che si trovano a rappresentare. L’idea di prestarsi a raffigurare i prigionieri di un campo di concentramento e di sterminio finisce per diventare una sorta di espiazione o se vogliamo catarsi ex-post, non dissimile da quella che, al di là tutto, la stessa regista sta compiendo dall’inizio del film. Già all’inizio della lunga sequenza la voce off glossa: “I morti si aggirano, i sopravvissuti si travestono”.
Prima che arrivino i titoli di coda, Beckermann dispone su un tappeto una serie di fotografie su cui fa scorrere, in silenzio, la macchina da presa. Alcuni dei personaggi raffigurati si riescono a riconoscere: sono i genitori (fotografie del matrimonio ad esempio), è la nonna Rosa, e Ruth stessa, altri si fa fatica a riconoscerli, ma appare alquanto probabile trattarsi di parenti deportati e uccisi, in buona sostanza la reiterazione stavolta visiva e non acustica dello stesso procedimento attuato da Franz West in Wien retour. Si tratta con tutta evidenza di un esempio, quasi didascalico, di ciò che esattamente dieci anni dopo Marianne Hirsch (docente alla Columbia, ebrea originaria di Timisoara, i genitori invece originari di Czernowitz), nel suo volume successivamente divenuto un classico, chiamerà “family frames”, con le fotografie a fungere da documento privilegiato della cosiddetta “postmemory”.

Come spiega la regista stessa, Die papierene Brücke è un film nel quale viene sperimentato un metodo al quale si atterrà in tutti gli altri film successivi incentrati su viaggi: il viaggio non viene “preparato” prima, la regista si lascia anche “sorprendere” da ciò in cui si imbatte, è un film in cui il montaggio riveste un ruolo centrale, un film costruito alla moviola – e anche questa sarà una caratteristica che ritroveremo in tutti film successivi, fino a MUTZENBACHER, l’ultimo girato.
Dal 1987 al 2022 Beckermann realizza in tutto dieci film che in prima battuta possono essere divisi in due macro-gruppi: film viennesi e film di viaggio. I film di viaggio sono, in ordine cronologico, il già citato Nach Jerusalem (1990), altro film in cui la meta di cui al titolo non viene mai raggiunta, seppur stavolta deliberatamente; un film verso Oriente, in particolare verso l’Egitto sulle tracce di Elisabetta di Baviera, vulgo Sissi, la moglie di Francesco Giuseppe che notoriamente dai trent’anni in poi non partecipò più ad alcun viaggio ufficiale a fianco del marito né mai più si fece fotografare, preferendo sparire di scena e viaggiando, appunto, in incognito verso Oriente, il film s’intitola (citazione della medesima) Ein flüchtiger Zug nach Orient (1999); un film incentrato su un viaggio in America (American Passages, 2011) e un film sulle varie tipologie di migrazione (Those Who Go, Those Who Stay, 2013).
Gli altri sei film sono ambientati invece a Vienna. Si tratta in due casi di film storici: l’eccellente The Waldheim Walzer (2018) che ricostruisce con pertinacia e ironia la lacerante divisione fra due Austrie al momento in cui Kurt Waldheim decise di candidarsi a presidente della repubblica, e uno dei film più interessanti della regista, intitolato Jenseits des Kriegs (1996), una serie di interviste in margine alla celeberrima mostra storica itinerante per diverse città tedesche (e anche a Vienna, appunto) intorno alla metà degli anni ’90 riguardante i crimini della “Wehrmacht”, interviste – contrassegnate da incredulità quando non addirittura da negazionismo – soprattutto a maschi della medesima generazione o figli di chi aveva combattuto nell’esercito tedesco, un segnale di quanto (malgrado gli accadimenti intorno al caso Waldheim) il processo di auto-consapevolezza e di memoria della generazione che ha fatto la guerra sia ancora molto lacunoso. Due film viennesi sono, invece, di matrice marcatamente ebraica: Homemad(e) (2000) che racconta il presente e il passato di alcune persone – molte, anche se non tutte di origine ebraica – che vivono e/o lavorano nella Marc-Aurel-Straße, la strada in cui abita Beckermann; l’altro film s’intitola Zorros Bar Mizwa (2006) ed è una ricognizione su riti e tradizioni della comunità ebraica alto-borghese viennesi per celebrare il bar mitzwah e il bat mitzwah dei loro rampolli e delle loro rampolle.
Gli altri due film sono l’interessantissima trasposizione cinematografica del carteggio Bachmann/Celan, troppo complesso per essere oggetto di analisi in questa sede, intitolato Die Geträumten (2016) e MUTZENBACHER, recentissimamente premiato alla Berlinale 2022 come miglior film della sezione “Encounters”. Girato in uno studio cinematografico/capannone di una fabbrica, dove la regista ha piazzato un sofà stile bordello e un altro divanetto altamente allusivo. Su quel sofà si siederanno centinaia di maschi chiamati a leggere brani o discutere i temi e le questioni di Josephine Mutzenbacher celeberrimo best-seller erotico-pornografico del 1906 che suscitò uno scandalo enorme e restò all’indice dei libri proibiti fini agli anni ’60, un libro che rappresenta convenzionalmente un esempio fra i più famigerati di quelle che il sociologo tedesco Klaus Theweleit chiamò Männerphantasien, ovvero le fantasie virili. L’operazione compiuta da Beckermann consiste nel leggere, discutere, esibire tali fantasie in relazione a questo libro dando vita a una sorta di casting. I molti uomini convocati appartenenti alle più diverse età (si tratta evidentemente solo di una piccola parte, il film è in larghissima parte frutto del montaggio) stanno a rappresentare una serie di possibili reazioni a fronte di questo libro scandaloso: vergogna, disgusto, piacere, entusiasmo.
La regista senza essere mai inquadrata pone domande, servendosi di un tono piuttosto freddo e anzi leggermente provocatorio, quasi a voler, più di cento anni di distanza dalla pubblicazione del libro, rovesciare le posizioni di potere che presiedevano a quel volume scandaloso: se nel 1906 il potere maschile si era servito di Josefine per dare sotto mentite spoglie libera espressione alle proprie fantasie facendole passare per i perversi desideri autenticamente femminili di una sorta di Lolita ante litteram, adesso con le domande e la macchina da presa Beckermann inverte i ruoli. È lei che ha il potere in mano: il potere di porre domande, il potere di decidere come inquadrare i maschi, il potere di quanto tempo concedere a ciascuno di loro, il potere del montaggio.
Dopo Milano, grazie alla collaborazione con Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia e Sicilia Queer filmfest, Ruth Beckermann sarà anche a Roma – dal 21 al 23 novembre al Cinema Troisi – e a Palermo (il 1° e il 2 dicembre al Cinema Vittorio De Seta), protagonista di due masterclass e per accompagnare la proiezione dei suoi tre film più recenti: Die Geträumten (2016), The Waldheim Waltz (2018), e MUTZENBACHER (2022).