Che cosa rimane di Indiana Jones, personaggio icona ( la frusta, il cappello e il tema musicale di John Williams i segni filmici della sua immediata e, in quanto tale, archetipica identificabilità) dell’epica archeologica creata da Steven Spielberg ormai quattro decenni fa ? (Da I predatori dell’arca perduta, che ha dato inizio alla saga nel 1981).
Si potrebbe dire , al termine di questo Indiana Jones e il Quadrante del destino, quinto capitolo della serie, rutilante e smaccatamente divertente viaggio di 142 minuti sostenuti al ritmo adrenalinico da autodromo di formula 1 dalla regia di James Mangold ( la cui ultima opera si svolgeva proprio nell’arena di Le Mans 66 – la grande sfida, 2019), che a restare intatta è l’atmosfera del tempo; ed è il proprio il tempo, al di là dell’intreccio narrativo e dell’esplicito riferimento nel titolo al leggendario marchingegno pensato e costruito dal grande filosofo e matematico Archimede, il soggetto che attraversa le immagini e si fa sempre più, ora affettuosamente ora rocambolescamente, sentimento e (mutante) stato dalle cose, fin dal prologo. L’incipit infatti , attraverso l’ontologica possibilità/potenzialità manipolatrice dell’immagine digitale, vela e poi (ris)vela il volto di un ringiovanito Indiana/ Harrison Ford che sembra provenire direttamente dalla pellicola diretta da Spielberg nell’81 , con lo stesso minaccioso e cupo scenario, quello dell’Europa sulla linea di fuoco della seconda guerra mondiale, preda dei nazisti che la saccheggiano in lungo e in largo, per trafugarne oggetti antichi e simbolici appartenenti alla tradizione alchemico/religiosa.
Un paesaggio di continui effetti e colpi di scena, con una parossistica integrazione in chiave avventurosa di una dinamica fisicità da comica del muto, che si fa immediatamente nostalgica memoria di un acquisito e sedimentato immaginario cinefilo.
Il tempo quindi c’è , ma è un paradosso annunciato, visto che quando ci spostiamo al presente della nuova avventura che sta per cominciare, ovvero gli Stati Uniti alla fine degli anni ’60 attraversati dalle contestazioni giovanili contra la guerra in Vietnam, troviamo un Harrison Ford/Indiana Jones che ha le fattezze non retro-digitalizzate, quindi con gli anni effettivi appartenenti all’attore americano nella realtà e al personaggio che interpreta nella finzione (sono passati circa trent’anni dalla prima sequenza in cui c’è stato con il metistofelico scienziato tedesco delle SS, sul tetto di un folle treno in corsa sotto i bombardamenti).
In qualche modo, con una sfumatura di senso e un grado di intensità differenti, si ripete dunque lo stesso processo presente in The Irishman, in cui Scorsese dilatava temporalmente fino allo spasimo terminale la propria costante riflessione antropologica, culturale, esistenziale sulle dinamiche di violenza, potere e desiderio della famiglia mafia; anche lì i suoi corpi attoriali iconici – Robert De Niro, Joe Pesci e il “nuovo” seppur affine Al Pacino – venivano artificialmente riportati alle sembianze di quando erano Goodfellas per poi risaltare nella loro endemica, inarrestabile, tangibile e deperibile realtà.
In questo caso non c’è l’inesorabile fardello di tradimento/colpa/espiazione da tragedia shakespeariana, quanto un divertito ed affettuoso flash-forward dove, come se fossimo tornati spettatori del 1981, con una sospensione del principio di verosimiglianza che ci rende un po’ più disponibili alla sorpresa e alla meraviglia (da questo punto di vista Mangold ha veramente mantenuto e rispettato il fanciullesco spirito spielberghiano), andiamo a vedere che cosa è successo al nostro eroe, ricostruendo poi a ritroso i frammenti di una storia che porta anche dei segni dolorosi non solo nel corpo (comunque piuttosto ancora in forma tanto da potersi concedere più di un’ inquadratura a torso nudo): c’è stato infatti nel frattempo un figlio morto (Mutt, che era apparso nel precedente capitolo, Il teschio di Cristallo) proprio nella guerra in Vietnam e, tra rimorsi e recriminazioni, c’è stata la conseguente separazione da Marion, l’amata moglie/compagna d’ avventure fin dal primo film; e se in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, Harrison (Ford è decisamente l’attore hollywoodiano con i ruoli più iconici se contiamo anche lo Han Solo di Guerre stellari)/ Dekkart incontrava di nuovo la splendida Rachel/Sean Young sotto forma di un mistificante ologramma, qui il breve ma memorabile duetto con Karen Allen, l’interprete di Marion, filmata nella sua ancora luminosa, autentica e matura faccia, non è il risultato di un effetto speciale ed è al centro di una delle più romantiche e tenere scene-citazione-omaggio che arricchiscono la godibilità della visione di cui si parlava.
Il resto è, appunto, l’aria del tempo ma sapientemente, per non dire programmaticamente, rinfrescata da una folata di novità ed energia: ad accompagnare il vecchio Indy nel tentativo di fermare l’allucinato progetto dello scienziato nazista (quello con cui il Jones degli anni ‘40 aveva lottato sul treno, e che, sopravvissuto, si è ricostruito un’identità negli Stati Uniti, fino a diventare , per un altro paradosso storico-temporale , il fautore della prima missione spaziale Usa sulla luna…) desideroso di impossessarsi del quadrante di Archimede per tornare indietro nella Storia e cambiare in positivo il corso delle gesta hitleriane, c’è infatti la versione upgrade della già indomita Marion de I predatori dell’arca perduta: si chiama Helena, la ritrovata figlioccia di Jones, e possiede tutte le contraddizioni e la sbruffonaggine della più adorabile canaglia /avventuriera: ricettatrice, ladra, eppure coltissima conoscitrice della cultura antica e dei suoi aspetti più misteriosi e indecifrabili (grazie all’eredità di un padre geniale ed ossessivo interpretato dal piccolo grande caratterista Toby Jones), questa figura di donna indipendente e libera si esprime con i gesti, il portamento, lo sguardo acceso e il fraseggio fulminante della strepitosa Phoebe Waller-Bridge ( “Tu l’hai rubato a lui e io l’ho rubato a te, si chiama capitalismo…” , dice a Jones proposito dell’agognato “quadrante” del destino, una battuta che ne mette in luce il temperamento irriverente e iconoclasta): i più la (ri)conosceranno per l’irresistibile serie tv Fleabag da lei scritta e prodotta (visibile su Prime Video) dove interpreta, con schiettezza e (auto)ironia, una scapestrata ragazza inglese che parla senza tabù di sessualità, amore e ricerca di un proprio spazio in una società omologante e classista, tra precarietà esistenziale e voglia di vivere.
La cosa più stupefacente è che non solo riesce a modulare perfettamente quel tipo di carattere femminile così contemporaneo che l’ha resa riconoscibile e a risultare assolutamente credibile come partner del “matusa” Indiana Jones; ma perfino il modo in cui si esibisce in inseguimenti, combattimenti, salti da automobili in corsa e sopra aeroplani in decollo ne fanno una plausibile, spericolata eroina d’azione, in perfetta coabitazione con la sua anima più riflessiva e distaccata da stand up comedian. Ed è stata probabilmente sempre lei la scelta più felice del cast (assai più convenzionale il “cattivo” di Madd Mikkelsen e un po’ tutto già visto il contorno di comprimari), in grado di contaminare questo immaginario, sempre a rischio di contemplativa museificazione o di divertissement che gira un po’ a vuoto, con un brivido di nevrosi e spregiudicatezza più contemporanee.
E , in appendice, le si rivolge un sentito grazie anche per aver anticipato e sventato, con uno strabuzzamento degli occhi o una smorfia della bocca sul suo irresistibile, asimmetrico volto, ogni momento di possibile retorica o patetismo, quando la pur comprensibile macchina dei ricordi rischia di farsi prendere la mano e il tempo del cinema e quello della vita sembrano veramente essersi fermati.
In sala dal 28 giugno 2023
Indiana Jones e il Quadrante del destino (Indiana Jones and the Dial of Destiny) – Regia: James Mangold; sceneggiatura: Jez Butterworth, John-Henry Butterworth, David Koepp, James Mangold; fotografia: Phedon Papamichael; montaggio: Michael McCusker, Andrew Buckland, Dick Westervelt; musica: John Williams; interpreti : Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Madd Mikkelsen, Karen Allen, Toby Jones , Antonio Banderas,Thomas Kretschmann; produzione: Kathleen Kennedy, Frank Marshall, Simon Emanuel; origine: Usa,2023; durata: 142 minuti; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Picture.