La caja

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Il film ha ricevuto  la “Segnalazione Cinema for UNICEF”, il tributo che ogni anno l’organizzazione dedica alla pellicola che meglio ha incarnato i valori dei diritti dell’infanzia, della pace e della tolleranza e il Premio “Sfera 1932”, istituito per premiare il film maggiormente capace di evocare e trasmettere la necessità di progettare il futuro in modo sostenibile, orientando ogni scelta di sviluppo verso l’innalzamento della qualità della vita.

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La caja, il nuovo film del regista venezuelano Lorenzo Vigas (ce lo ricordiamo per Desde allá, con cui egli sbarcò in laguna nel 2015 per vincere il Leone d’oro) sembra iniziare là dove finisce Madres paralelas: entrambe le opere, difatti, ripercorrono le fila di un passato e di un presente rimasti orfani, descrivendo l’esatta fisionomia di una generazione in parte ripudiata. Se Pedro Almodóvar abbassa il sipario sull’agghiacciante sepolcro di un’intera nazione, Vigas cammina a ritroso e parte proprio dall’oltretomba, raccontandoci ciò che viene dopo la scoperta della morte. Questa volta, l’eroe è uomo – e infatti non è un eroe, ma solo un adolescente alla disperata ricerca dell’ombra paterna. Il giovane e irrequieto Hatzin (Hatzín Navarrete) è uno dei tanti figli di nessuno intenti a vagare per il Messico, inseguendo gli scomparsi del tempo che fu.

I primi quindici minuti sono di un cinismo e di una crudeltà disarmanti: l’incontro con l’ormai defunto genitore avviene fra le pareti arrugginite di un container piazzato nel bel mezzo del deserto a guardia di una fossa da poco scoperta. A suggellare il momento, gli impiegati socchiudono gli occhi e ripetono con ostentata freddezza le classiche formule di rito: nome? Età? Delega del tutore legale, prego. Poco dopo appare sulla scrivania una grossa scatola: il signore è pregato di accomodarsi in fondo alla sala. Grazie e arrivederci. Abbiamo l’impressione di trovarci in un ufficio postale, soprattutto osservando l’espressione angosciata eppur impassibile del protagonista. Siamo perfino tentati di comportarci come la nonna che, al telefono, lo prega insistentemente di non piangere – chissà, magari sperando di ottenere l’effetto contrario, di provocare nel ragazzo uno sfogo liberatorio. Che però non avviene: e così inizia la nostra avventura lungo le steppe messicane.

Sprofondato nell’autobus che lo dovrebbe ricondurre a casa, Hatzin incrocia uno sguardo noto – lo stesso appartenente ad una vecchia carta d’identità da poco rinvenuta in una fossa comune. L’adolescente riconosce il disperso molto prima di noi, e si getta all’inseguimento del presunto padre. Il quale ovviamente nega la sua vera (siamo sicuri?) identità. L’uomo ora possiede un altro nome, è circondato da un’altra famiglia, e soprintende – guarda caso – un’agenzia di collocamento itinerante: il posto ideale per trarre, da semplici fantasmi, esseri viventi in carne ed ossa. Non sappiamo se padre e figlio siano veramente padre e figlio o se stiano soltanto giocando al padre e al figlio. Il dubbio sulla veridicità dello strano legame genetico non verrà mai davvero chiarito, un’incertezza dai tratti oscuri pervade gli scenari, fra le pianure e le strade desolate regna un’ambiguità spettrale a cui finiamo presto per abituarci.

Anche Hatzin impara a convivere con i nuovi parenti, esibendo un’indifferenza che in realtà non gli appartiene affatto e cercando di sopprimere le domande che potrebbero fare troppo rumore. In effetti, un silenzio eloquente pare inghiottire ogni affetto: incapacitati a parlare, i personaggi si limitano a scambiarsi qualche battuta e qualche cenno del capo, imitando un linguaggio imparato altrove (o in una vicina epoca). Come Almodóvar, anche Vigas ritrae una civiltà priva di radici e di frutti, destinata a roteare instancabilmente senza giungere ad un epilogo: se però le grandi madri del regista spagnolo riescono a spezzare il claustrofobico cerchio del non detto e del non fatto, Hatzin si getta verso l’itinerario opposto, consacrandosi all’eterna fuga.

Ad amplificare l’eco dell’ineluttabile smarrimento emanato dai protagonisti è la fotografia: i soggetti si muovono circospetti da un lato all’altro dell’inquadratura, talvolta occhieggiando al di fuori della cornice, come se cercassero qualcosa che nemmeno noi dalla sala siamo in grado di trovare. La cinepresa attraversa l’intero quadro, mappandone in lungo e in largo le coordinate: così accompagniamo il nostro adulto non ancora adulto per campi brulli, per immensi bassipiani, per lande ghiacciate, parcheggi, motel e fast food nei quali si aggirano i pochi superstiti risparmiati dalla Storia. Abbiamo l’impressione di aspettare una svolta che invece non si realizzerà mai: nel puerile sforzo di rintracciare le orme paterne, Hatzin scoprirà il motivo per cui dal silenzio si genera solo il silenzio. Tornato dalla sua scatola, l’ormai scettico ragazzo cercherà di rimuovere nuovamente ciò che, almeno in teoria, dovrebbe essere già rimosso.


Cast & Credits

(La caja); Regia: Lorenzo Vigas; sceneggiatura: Lorenzo Vigas; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Isabela Monteiro de Castro, Pablo Barbieri; interpreti: Hernán Mendoza, Hatzín Navarrete, Elián González, Cristina Zulueta, Dulce Alexa Alfaro, Graciela Beltrán; produzione: Teorema (Lorenzo Vigas, Michel Franco, Jorge Hernández Aldana), SK Global Entertainment (Michael Hogan), Labodigital (Charles Barthe); origine: Messico, USA 2021; durata: 92’.

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