La voce narrante ( appartenente alla storica doppiatrice Maria Pia Di Meo nella quale è possibile sentire il riverbero delle grandi interpreti della storia del cinema, da Shirley MacLaine a Meryl Streep) si incarna con la voce di un paesaggio, di un luogo , di un popolo, “il canto di chi poteva aggrapparsi solo intorno a se stesso, il canto di un paese cresciuto intorno ad una ferita” ; una suggestione onirica ( “un sogno spazzato via dalla vita”) che termina sul particolare di due mani intente a ricucire, ago e filo, le due parti di una foto strappata.
Cosi comincia La luna sott’acqua, il film con cui Alessandro Negrini si confronta con una delle grandi tragedie italiane del secolo scorso, quando il 9 ottobre del 1963 , una frana precipitò nel bacino idroelettrico artificiale realizzato dalla diga costruita nel torrente del Vajont (Tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto), provocando una devastante inondazione che distrusse i villaggi circostanti e provocò 1.917 vittime. E, come fa presagire l’incipit e lo stesso titolo, non si tratta di un reportage, di un’ inchiesta o un film di denuncia nel senso convenzionale del termine, e perfino la stessa forma documentaria sembra stargli stretta. Lo sguardo di Negrini lavora sul tempo e sull’immaginario, sulla ricostruzione di uno spiritus loci che abbraccia materiali eterogenei da un punto di vista narrativo ed estetico: il racconto declinato in una sublimale dimensione fantastica ( “c’era una volta…”), i filmati d‘archivio in forma di memoria lucida e struggente, le testimonianze dei superstiti che portano avanti, nella relazionale pratica dialogica degli incontri e dei confronti nei luoghi di ritrovo paesani (piazze, strade, osterie in particolare di Erto, uno dei paesi ancora esistenti seppur frantumati nella costante precarietà degli effetti a lungo termine generati dal cataclisma) la rivendicazione contro un’ ingiustizia perpetrata da logiche di potere economico e politico.
Non c’è nulla però di programmatico o di schematico: si avverte la necessità di restituire uno spazio e una presenza a un avvenimento cosi radicale – nel senso anche letterale di sradicamento – nella sua portata e nelle sue conseguenze, da lasciare l’enorme fuori campo di vittime delle quali non si sono ritrovati neanche i resti, come se l’esistenza di quelle persone, quelle case e quelle storie fosse stata relegata ad un inconscio sommerso. Il ricucire al quale fa riferimento l’immagine iniziale non riguarda dunque solo la permanente elaborazione di un trauma , ma anche la percezione e l’impatto che quel trauma ha avuto all’esterno, la sua interdetta riproducibilità mediatica; la mancata, o meglio, rimossa e obliata visibilità di un buco (di responsabilità , approssimazione, indifferenza ) dentro il quale è scomodo, eticamente e spazialmente, immergere la testa per seguirne le interrotte ramificazioni. La mdp di Negrini si prende un simile onere e ha il coraggio di rappresentare la frattura tra i resilienti anziani autoctoni, che chiedono non ci siano sconti o riformulazioni rispetto alle cause e ai colpevoli della tragedia, e le istituzioni che istituiscono un bando per realizzare un’opera d’arte sul Vajont; un conflitto tra la questione ancora aperta di un territorio abbandonato e dimenticato nelle sue basiche esigenze (la scuola chiusa come negazione di un futuro) e lo spostarne il dibattito su un livello simbolico e universale (“La diga del Vajont non appartiene a voi, ma all’umanità” dice il curatore del progetto a una rappresentanza degli abitanti della valle).
La cosa interessante è che lo stesso regista cerca di far convivere entrambi gli aspetti (il pragmatismo e la poesia, l ‘urgenza e la riflessione) nella forma che imprime al suo film; un pedinamento di gesti, silenzi e passaggi tra gli innevati boschi collinari e le rovine diroccate di una traccia umana cancellata; l’avvicinamento alla sofferenza conficcata nelle carni di un tessuto sociale ancora vivo e recalcitrante (con il rifiuto di esseri considerati “morti” o “clandestini” nella propria terra) e il porsi comunque il problema che forse solo la potenza evocativa e intuitiva della poesia, e dell’arte, possa permettere un’elaborazione e una trasformazione del dolore. C’è infatti una continuità tra le vecchie e le nuove generazioni, con la messa in atto di un processo che travalica lo stato di auto conservazione legato esclusivamente a un residuale istinto di sopravvivenza. Si afferma la volontà di tramandare una possibilità di riscatto ai giovani e ancor di più ai bambini, nel passato i martiri più colpiti (molti degli adulti ancora in vita erano all’epoca poco più che ragazzini privati interamente della propria genealogia familiare) e nel presente i destinatari più emblematici di questa storia che, per non ripetersi, deve chiarire prospettive e posizionamenti. Destituito il mistificante spettro di una natura ostile e indifferente che uccide i propri i figli, la bellezza delle riprese paesaggistiche ha l’intento di restituirne un incanto e una sintonia con chi la popola, l’ascolto attivo che non esclude una trasfigurazione non risolta però in una chiave vagamente mistica o spirituale. C’è la forza della creatività e della resilienza, uno spirito tutt’altro che evanescente le cui radici Negrini mette in scena, tornando ad un’ epica rurale, con degli inserti di finzione dove si ricostruiscono i primi insediamenti d’epoca medioevale ai piedi del Monte Toc; e non è un caso che i “coloni” originari fossero dei reietti, degli emarginati, dei dimenticati di lingua slava e che riemergano dalle ombre di un sonno/sogno di chi ancora oggi lotta per il risarcimento da un intenzionale abuso subito, e non da un’accidentale catastrofe naturale.
Una struttura così azzardata da a tratti la sensazione di uno squilibrio tra i vari toni (evocativo, civile, esistenziale, storico) che va a toccare e non sempre c’è una fluidità nell’orientarsi tra le sequenze più strettamente documentarie e i momenti di sospensione spazio-temporali, in un connubio discontinuo tra le ragioni del cuore e quelle della mente. Ma a prevalere è un sentimento così endemico di tenacia e di quiete, di sommessa indignazione e dignitoso dolore, da far superare le rigide polarità e lasciar sedimentare un’ intuizione, un dettaglio, un’ epifania: riflessa sulla superficie dell’acqua o del vetro di uno specchio, la luna torna a brillare nel cielo.
Proiezione evento martedì 14 novembre ore 21 al cinema Farnese a Roma, a seguire incontro con il regista.
La luna sott’acqua; Regia: Alessandro Negrini; soggetto: Alessandro Negrini, Elisa Nocente; sceneggiatura: Alessandro Negrini, Fabrizio Bozzetti; fotografia: Odd-Geir Sather ; montaggio: Beppe Leonetti; musica: Andrea Gattico; interpreti: Maria Pia di Meo (narratore), Janez Škof, Cristiano Cappa, Giovanna Corona, Mauro Corona, Giota (Luigia) De Marta, Gianluca D’Incà Levis, Beppino Filippin “Giambon”, Italo Filippin, Luciano Pezzi, Guido Sain, Giordana Zagmester; produzione: Marta Zaccaron, Fabiana Balsamo, Igor Pediček, Beppe Leonetti per Casablanca Film, RTV Slovenia, Incandenza Film; origine: Italia/ Slovenia, 2023; durata: 75 minuti; distribuzione: Incipit Film.