Festival del Cinema tedesco: La ragazza con le mani d’oro di Katharina Marie Schubert

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C’era una volta un mugnaio caduto in miseria. Un giorno, per celebrare i suoi sessant’anni, il mugnaio decise di dare una grande festa. Alla festa accorse tutto il villaggio. Per l’occasione, anche la figlia ritornò a casa da una terra lontana chiamata Berlino. Canti, balli e manicaretti di ogni sorta allietarono i commensali. Ma il diavolo sta sempre in agguato, e presto il lieto evento venne interrotto da un terribile imprevisto.

Così inizia la storia di Gudrun (interpretata da una attrice formidabile, la Doktor Professor Corinna Harfouch di Berlin Calling, 2008, diretto da Hannes Stöhr), una donna come tante dispersa in una delle tante cittadine del tanto vituperato est della Germania. Corre l’anno 1999, la cosiddetta Wende con la caduta del muro di Berlino è ormai lontano dieci anni e nulla sembra essere cambiato più di tanto: lontano dalla capitale sorge un altro muro e, con esso, un altro spazio-tempo. È a tale dimensione simil-mitologica che la fu attrice Katharina Marie Schubert si ricollega, allestendo uno scenario degno dei Fratelli Grimm in questa sua opera prima, presentata al “Festival del cinema tedesco” di Roma (https://close-up.info/festival-del-cinema-tedesco-ii-edizione-roma-24-27-marzo/).

Non a caso, la prima impressione è quella di sedersi davanti al focolare: qui e solo qui è possibile trasformare la fanciulla senza mani, la terribile fiaba immortalata secoli or sono dai due filologi-trovatori, in una ragazza con le mani d’oro e, magari, con la passione della scrittura. Per comprendere a pieno il quadro di genere fornitoci dalla regista è dunque necessario rispolverare la nostra cultura infantile, in quanto l’intera pellicola si muove all’ombra di un sottotesto favolistico atto a trasformare la vita in leggenda. Ma ritorniamo a Gudrun e al suo tragicomico simposio del compleanno dei sessant’anni.

Come l’eroina di ogni saga che si rispetti, Gudrun è due volte orfana: di padre e di madre, innanzitutto. La sua fanciullezza si consumò fra le placide mura di un piccolo istituto per ragazzini abbandonati. Poi arrivò la giovinezza, poi l’età adulta – non solo la sua, ma quella di un intero Paese: al crollo della cortina di ferro, Gudrun viene nuovamente lasciata sola. E per l’esattezza, proprio dal vecchio mulino che la vide crescere, ultimo baluardo della defunta DDR svenduto dal sindaco in persona al ricco diavolo occidentale – altresì detto denaro. Niente paura, siamo ben lontani dal pamphlet politico: il tono adottato dalla regista è quello di un’anziana massaia che, con i suoi inverosimili aneddoti, intimorisce e insieme diverte.  L’atroce notizia, difatti, giunge en passant, durante una di quelle squallide serate nelle quali tutti fanno finta di conoscersi, di divertirsi o, quantomeno, di saper ancora socializzare nonostante le frustrazioni che l’essere umano di provincia quotidianamente subisce.

Il film si divide in tre capitoli, ripercorrendo così le tre tappe fondamentali dell’antico racconto a cui i Grimm pongono il loro marchio: A Gudrun, la proprietaria del mulino, viene intestato l’incipit. Ma la vera protagonista dell’avventura sarà sua figlia Lara (Birte Schnöink recentemente incontrata alla Berlinale 2022 nello spaventoso Zum Tod meiner Mutter), anch’essa orfana di un padre-artista fuggito nel lontano ovest. A chiudere il cerchio giunge infine Werner (Peter-René Lüdicke), il fedele e mite compagno di Gudrun scopertosi dissidente con circa trent’anni di ritardo.

Gli eventi seguono la logica dell’immobilismo – ovvero, succede tutto e non succede niente: Gudrun scopre che l’orfanotrofio in cui è cresciuta sta per diventare un albergo di lusso. Viene accidentalmente investita, ma ciò non le impedisce di chiudersi fra le gelide stanze del suo giardino d’infanzia. Il gesto scatena le ire dei conoscenti ma, oltre a ciò, nulla più. Nel frattempo, la berlinese d’adozione e scrittrice in prova Lara scopre l’identità del suo vero padre e si reca a trovarlo ma, oltre a ciò, nulla più: pare che entrambi, in un certo senso, si riconoscano. Eppure, il passato rimane prigioniero di sé stesso e non intende emergere se non attraverso la polvere dorata di uno scrigno d’ottone. Che, guarda caso, si appiccica alle dita della giovane donna così come l’argento, nella novella originale, cresce fra le mani mozzate della principessa esiliata dal nido domestico. Di fronte alla strana costellazione familiare, nonché al volto consunto (e, in gran parte, ignoto) del papà pittore riecheggiano le voci del celebre Goodbye Lenin (2003) di Wolfgang Becker. Ma si tratta di un attimo, e il ricordo svanisce: si ritorna in provincia, da Gudrun e Werner. Il quale spezzerà la maledizione del mulino, portandolo via al diavolo prima che quest’ultimo lo trasformi in forziere.

La ragazza con le mani d’oro è un’affascinante parabola sul triste epilogo di una DDR irreale, conosciuta ed esplorata soltanto attraverso un immaginario comune dai contorni quantomeno nebulosi. La DDR qui presentataci appare incancrenita nella memoria di chi la evoca, come un mito che rifiuta di rinnovarsi – o la cittadina tutta pinnacoli e casette in cui i protagonisti, a detta di due visitatori di Berlino, si ostinano a sopravvivere. Attraverso il linguaggio sobrio e appassionato tipico dei raccontafavole, Katharina Marie Schubert fotografa un mondo perennemente al tramonto, sottraendo dalla Wende la guerra fredda e concentrandosi sul rito di passaggio che ogni fiaba – e ogni umana esistenza – in sé racchiude.


Cast & Credits

La ragazza con le mani d’oro  (Das Mädchen mit den goldenen Händen) –  Regia: Katharina Marie Schubert; sceneggiatura: Katharina Marie Schubert; fotografia: Barbu Balasoiu; montaggio: Anja Pohl; interpreti: Corinna Harfouch (Gudrun), Birte Schnöink (Lara), Peter René Lüdicke (Werner), Jörg Schüttauf (sindaco Jens), Gabriela Maria Schmeide (Jutta); produzione: Blue Fox Entertainment; origine: Germania 2021; durata: 107’.

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