Qualcuno sostiene che Milano sia una città triste, operosa, utilitarista, pragmatica magari arrivista; e triste. E forse ha ragione. Ma Milano è pure una città ancora piena di una sua poesia malinconica e folle, aspra come il realismo di Giovanni Testori, nato a Novate Milanese; lunatica come il poema omonimo del padano Ermanno Cavazzoni, che ha funto da spunto per l’ultimo film di Fellini; struggente come la canzone che gli ha dedicato Lucio Dalla (“Milano che ride e si diverte. Milano che quando piange, piange davvero”); surreale come quelle scritte da Enzo Iannacci, come ad esempio Una canzone intelligente cantata da Cochi e Renato, sulle cui note comincia La storia del Frank e della Nina, diretto da Paola Randi e inserito in anteprima nella sezione “Orizzonti Extra” della Mostra di Venezia 2024.
È una favola metropolitana il film della Randi, regista che da Tito e gli alieni(2017) a Beata te (2023) tenta felicemente di ritagliarsi uno spazio in un campo poco battuto dalla nostra cinematografia: il fantastico, in tutte le sue declinazioni. Pure qui la regista milanese non rinuncia a usare certe soluzioni narrative proprie del cinema di animazione/fantasy come già le era accaduto ai tempi de La Befana vien di notte II – Le origini, ricorrendo a l’uso di geometrie razionaliste e usando una palette di colori “desaturati” (transitando pure verso il bianco e nero).
Una favola tenera e crudele girata nelle grandi periferie milanesi (dalle case popolari Gescal alle ex-acciaierie Falk), quelle in cui imperano i palazzi abbandonati, le cattedrali nel deserto della campagna lombarda e le archeologie industriali. Quelle in cui sono nati e cresciuti i terroni settentrionali cantati da Francesco De Gregori, che vivono nell’infinito hinterland milanese; i nipoti di quelli della banda dell’Ortica, o del Cerutti Gino cantati da Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, o della Mala di Giorgio Strehler, Fiorenzo Carpi e Dario Fo. La città di Miracolo a Milano, il film più fantastico e lunare del maestro del Neorealismo, Vittorio De Sica, condizionato allora dalla vena dello sceneggiatore/teorico Cesare Zavattini, che arrivò a far volare i suoi proletari sopra al Duomo, sui manici di scopa.
La storia del Frank e della Nina è un romanzo di formazione per sognatori, che racconta una vicenda di emarginazione e poesia in cui il centro della scena è occupato da tre strambi “drop-out”. Un triangolo alla Jules e Jim, di cui la regista si diverte pure a citare una delle mitiche corse; sostenuto dal tipico umorismo meneghino, tra il surreale e il malinconico, a partire dal fatto che il narratore della storia, ovvero il Gollum, è uno che non parla.
Se la voce narrante è affidata a un personaggio afasico, il ruolo del protagonista maschile è interpretato da un uomo che non esiste: il Frank, il quale ti fa vedere la vita che fa schifo a colori, ed è ispirato al bambino di otto anni che raccontava le sue prime esperienze sentimentali in un vecchio documentario di Silvano Agosti, intitolato D’amore si vive. Poi c’è Nina, anzi la Nina perché qui “per fortuna siamo a Milano e non a Roma” – parafrasando Nanni Moretti – un fiore cresciuto nel cemento, una rom: i paria per eccellenza (come si dice nel film). Una sposa bambina di 16 anni dallo spiccato idioma partenopeo, interpretata da Ludovica Nasti, a tutti nota per aver preso parte alla serie-tv tratta da L’amica geniale di Elena Ferrante. Sposata a un patriarca manesco che si fa chiamare Duce, un “gaggio” che tra gli zingari italiani sono i paurosi o i sempliciotti.
Ma il film di Paola Randi non è un film d’inchiesta del cosiddetto “cinema civile”, non vuole denunciare le disfunzioni della politica, i soprusi e le ingiustizie. Non nel senso in cui lo farebbe un pamphlet ideologico, semmai forse nei toni lirici di una poesia allegra e insieme disperata; come certi squallidi muri scrostati delle stazioni ferroviarie di periferia, maldestramente ravvivati da tag e graffiti. È piuttosto un poema stridente che parla della ricerca de loro posto al mondo di tre irregolari, tre “weirdo” per dirla con i Radiohead, tre “underdog” che era una parola che esisteva prima che se ne appropriasse il nostro attuale Presidente del consiglio. Un’ode alla bellezza della diversità; un inno alla sapienza, pure, la sola che ci emancipa tutti dall’ignoranza, naturalmente, ma anche dalla miseria, compresa quella del conformismo.
Una storia, quella del Frank e della Nina, che non poteva che svolgersi a Milano, come spiega la stessa Randi, che dopo esserci nata la ha abbandonata per tornare oggi a cantarla: “Questa storia nasce dal desiderio di raccontare la mia città: Milano. Milano è una città discreta, nel senso che è ‘dentro’, dentro i palazzi, dentro i cortili, nascosta nelle case, nei quartieri che sembrano vuoti, silenziosi, ma che, ad uno sguardo più approfondito, nascondono mille voci: storie di vite, di speranze, di persone. Perché Milano è una città di sognatori”.
In anteprima alla Mostra del cinema di Venezia (sezione “Orizzonti extra”)
In sala dal 3 ottobre 2024.
La storia del Frank e della Nina – Regia: Paola Randi; soggetto: Valia Santella, Paola Randi; sceneggiatura: Paola Randi; fotografia: Matteo Carlesimo; montaggio: Andrea Maguolo; scenografia: Marc’Antonio Brandolini; costumi: Susanna Mastroianni; musiche: Zeno Gabaglio; interpreti: Gabriele Monti, Ludovica Nasti, Samuele Teneggi, Marco Bonadei, Bruno Bozzetto, Alessandra Casella, Anna Ferzetti; produzione: Domenico Procacci e Laura Paolucci per Fandango con Rai Cinema, e con RSI Radiotelevisione Svizzera; origine: Italia/Svizzera, 2024; durata: 106 minuti; distribuzione: Fandango.