Con una decisione coraggiosa, seppur filologicamente discutibile (edizioni non in originale ma doppiate; un esempio fra tutti: la voce fuori campo di Europa che nell’originale anglo-tedesco è di Max von Sydow, in italiano è di Nando Gazzolo, scomparso quasi dieci anni fa, la cosa per un film che esce nel 2024 suona un po’ strana, e più in generale i paradigmi distributivi sono cambiati), Movies Inspired distribuisce, non certo in un periodo particolarmente vantaggioso, la Trilogia Europea di Lars von Trier, ora che è stata restaurata in 4K.
È risaputo che la definitiva consacrazione autoriale passa spesso attraverso il concepimento e l’attuazione di trilogie, soprattutto all’interno del cinema europeo, gli esempi sono innumerevoli. Pensiamo, che so io, a Michelangelo Antonioni con la trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura, La notte e L’eclisse, girati fra il 1960 e il 1962, quando il regista ferrarese aveva dai 48 ai 50 anni), pensiamo a Ingmar Bergman con la trilogia del silenzio di Dio (Come in uno specchio, Luci d’inverno e Il silenzio, fra il 1961 e il 1963, il regista svedese aveva dai 43 ai 45 anni), pensiamo a Krzysztof Kieślowski con la trilogia dei colori (Film Blu, Film Bianco e Film Rosso pubblicati fra il 1993 e il 1994, quando il regista polacco aveva dai 52 ai 53 anni, saranno i suoi ultimi).
Si potrebbero fare moltissimi altri esempi, ma mi fermo qui. Limitandosi ai tre esempi fatti, il solo Kieślowski statuisce fin da subito, com’è evidente, che si tratta di una trilogia, nel caso invece di Antonioni e di Bergman (che, come qualcuno ricorderà, muoiono lo stesso giorno il 30 luglio del 2007) si tratta di un’attribuzione pensata dalla critica e più o meno obtorto collo accettata dagli autori. Nei tre esempi ricordati, ho di volta in volta citato le date di pubblicazione e l’età che aveva il regista per segnalare due dati significativi: le trilogie si collocano in un momento avanzato della vita e della filmografia dei registi, le trilogie sono composte da film fra loro ravvicinati.
E poi c’è Lars von Trier. Che nel 1982 a 26 anni gira un primo mediometraggio intitolato Immagini di liberazione (Befrielsesbilleder) che gli varrà il diploma della scuola di cinema di Copenaghen. E poi, anche approfittando di un clima economico-culturale particolarmente favorevole a sostenere – senza cercare di normalizzare – nuovi talenti emergenti, si mette all’opera e concepisce un progetto articolato che, con rara precocità e consapevolezza, battezzerà fin da subito la Trilogia Europea.
La trilogia è, notoriamente, composta da The Element of Crime del 1984, Epidemic (1987) ed Europa (1991). Già il primo film viene invitato in concorso a Cannes, dove ottiene un premio per il contributo tecnico, il secondo passa pure a Cannes, stavolta non in Concorso ma nella sezione Un certain regard; con il terzo film, Europa appunto, von Trier raggiungerà la definitiva consacrazione autoriale, ricevendo nel 1991 il Gran Premio della Regia. Nel mezzo, fra il secondo e il terzo film, von Trier realizza anche un vecchio progetto che era stato di Carl Theodor Dreyer (che von Trier ha da sempre considerato uno dei suoi maestri), ossia la trasposizione cinematografica, recte televisiva, di Medea di Euripide. Terminata la trilogia, sarà la volta della celeberrima e straordinaria serie Riget (The Kingdom, prima stagione 1994, seconda stagione 1997) di cui, per quest’anno a distanza di trent’anni, è annunciata la pubblicazione della terza stagione e, di lì a un anno, von Trier risulterà fra i firmatari di quello che, negli ultimi decenni, resta forse il manifesto più celebre, ossia Dogma95. A seguire: una nuova trilogia, quella del Cuore d’Oro, di cui fanno parte, fra gli altri quelli che forse restano i suoi film più celebri ossia: Le onde del destino (1996) e Dancer in the Dark (2000, Palma d’Oro a Cannes) , insieme a Idioti del 1998, l’unico contributo perfettamente in linea con le prescrizioni annunciate nel manifesto del 1995.
Fin da giovane Von Trier ama peraltro accompagnare i propri film con dichiarazioni programmatiche, ciascuno dei tre film della Trilogia Europea è preceduto da una breve, a tratti saggistica, dichiarazione poetologica che intende veicolare un altissimo grado di consapevolezza teorico-filosofica da parte del giovane autore danese.
Che dire della nostra trilogia, meritoriamente riproposta a distanza di quarant’anni all’attenzione del pubblico, tenendo inevitabilmente conto del fatto che von Trier figura fra gli autori europei più studiati dalla critica accademica a cavallo del ventesimo e del ventunesimo secolo e che quindi è pressoché impossibile porsi in modo ingenuo e vergine di fronte a questi testi? Colpiscono, provando a tornare indietro di decenni e pensando all’evoluzione successiva dell’opus di von Trier, almeno quattro aspetti: in primo luogo una straordinaria consapevolezza formale, costantemente a rischio estetizzazione di stampo formalistico, pensiamo alle immagini virate in giallo di The Element of Crime o all’uso delle retroproiezioni in Europa; in secondo luogo la conoscenza enciclopedica della storia del cinema che fa di von Trier una sorta di nerd del cinema d’autore (una specie di equivalente in campo autoriale di ciò che nel campo del cinema di genere è/ è stato, a partire più o meno dai medesimi anni, Quentin Tarantino), una conoscenza enciclopedica che vira sia per quanto attiene ai contributi tecnici che al casting in un citazionismo esasperato: Henning Bendtsen, il direttore della fotografia di Dreyer, Udo Kier “prelevato” dal cinema di Fassbinder, come anche Barbara Sukowa femme fatale (vedi Lola) o come anche Eddie Constantine, in una sorta di citazionismo al quadrato via Godard e poi via Fassbinder. In terzo luogo, in tre film che presentano una narrazione comunque frammentata, associativa, si palesa nella trilogia europea quello che poi sarà un Leitmotiv dell’opera successiva ovvero il fallimento, il dolore, lo strazio, prove di melodramma: i tre personaggi protagonisti (l’investigatore Fisher in The Element of Crime, il dottor Mesmer, interpretato dallo stesso von Trier, in Epidemic, il tedesco-americano Kessler in Europa) sono tre idealisti che cercano di cambiare il mondo senza riuscirci anzi pagando in prima persona. Infine, in quarto luogo: la compresenza di realismo e fantastico che contraddistinguerà un po’ tutta l’opera di von Trier, anche negli anni a venire.
E per concludere, forse, una ricognizione precoce e a tratti visionaria sulle radici malate di un’identità complessa come quella europea che mai come oggi appare in crisi.