Si legge nel Vocabolario Treccani alla voce “agiografia” che il termine, oltreché nel suo significato proprio di biografia di un santo, sta a disegnare per estensione anche “la letteratura o più in generale quell’atteggiamento sentimentale che tende a svolgere narrativamente motivi leggendari intorno a una personalità della storia politica o religiosa, sentita ed esaltata miticamente”. Non c’è nulla di leggendario, nel senso di non documentato nel film biografico che Marco Spagnoli (presentato prima al Festival di Taormina, ora al Torino F.F.) ha dedicato a Franco Battiato (1945-2021), intitolandolo come il suo album più importante, una delle vette della musica leggera italiana (uscito nel 1981), ovvero La voce del padrone. Ma è leggendario nel tono, nell’atteggiamento appunto in cui l’elemento informativo, denotativo, con cui il film pure comincia, cede in modo inesorabile il passo all’elemento connotativo, volto a ribadire tramite l’utilizzo di un procedimento anaforico più o meno sempre le stesse caratteristiche del personaggio in questione. Insomma guardando questo film non avviene quasi mai che lo spettatore, mediamente al corrente della vita e delle opere di Battiato, finisca per apprendere qualcosa che già non sapesse. E dire, come già si accennava, che il film inizia molto bene con la decostruzione musicale di Centro di gravità permanente, grazie all’ausilio di Pino Pischetola, ingegnere del suono che ci mostra le interazioni delle varie sezioni canore e ritmiche di quella canzone, illustrando su un piano squisitamente testuale l’originalità dell’artista siciliano.
Diciamo che tutta la prima parte del film tutto sommato funziona. E funziona a) convocando gli “attori” di una volta ovvero i musicisti che facevano parte della band che eseguì l’incisione e accompagnò Battiato in tour; b) ascoltando la testimonianza del produttore della EMI che accettò la sfida di pubblicare il primo album pop di un autore fino a quel momento ostico e avanguardista; c) ascoltando Alice che proprio allora cominciò la collaborazione col cantautore; d) tornando indietro a Caterina Caselli che insieme a Giorgio Gaber ospitò Battiato in una pionieristica trasmissione televisiva degli anni ’60, e) ascoltando e vedendo la testimonianza di Nanni Moretti che spesso ricorre a Battiato nei suoi film; f) passando attraverso colleghi come Eugenio Finardi e Morgan che, come già nel film che recensimmo qualche mese fa Invito al viaggio parlano di lui ma al contempo eseguono a cappella o accompagnandosi al piano sue canzoni; g) riportando la testimonianza di Riccardo Bertoncelli, stimato e temuto critico musicale dagli anni ’70 in avanti (“Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate”, cantava Francesco Guccini ne L’avvelenata); g) intervistando l’autore della fotografia di Battiato presente nella copertina de La voce del padrone, ovvero Roberto Masotti, recentemente scomparso e a cui il film è dedicato.
Ad accompagnare tutti questi testimoni c’è sempre Stefano Senardi, produttore musicale, e compagno di strada di Battiato, come testimoniano alcune fotografie che li ritraggono insieme. Tecnicamente Senardi, inquadrato, con il suo bastone istoriato sempre al centro della scena, decine e decine di volte fino nei titoli di coda, su cui torneremo, è un seguace di Battiato, oltre ad essere di questo film al contempo l’autore del soggetto e il produttore creativo. Che sia un seguace lo dice fin dall’inizio: “Io sono uno di quelli a cui Franco Battiato ha insegnato a vivere”. Ed è a causa (o, se vogliamo, per colpa) di Senardi che il film – esaurito tutto quello che c’era da dire sull’album del 1981 – prende una deriva agiografica, che comunque era sempre latente in tutte le testimonianze della prima parte, fra gli altri testimoni della prima parte si ricordi anche il giornalista Andrea Scanzi, di fatto un altro seguace del musicista siciliano.
Il turning point verso la seconda parte è forse da rintracciarsi nel secondo intervento di Morgan, il quale afferma che Battiato è stato il musicista italiano più importante del secondo Novecento in Italia, affermazione molto molto ardita. Da qui in avanti molte scene si svolgono a Milo, nella casa di Battiato e prende decisamente il sopravvento la fase tarda, diciamo più mistica del musicista siciliano, a testimoniare la quale vengono convocati ulteriori testimoni fra i quali spiccano un religioso gesuita con Battiato fu in contatto e Juri Camisasca, ma anche via computer un suo corregionale nonché seguace della prima ora, ossia Vincenzo Mollica. Quello che non mi è piaciuto di questa fase è per l’appunto una certa tendenza alla mitizzazione acritica: se si può far discutere la frase di Morgan, sopra riportata, non c’è dubbio che si farà fatica a ricordare il Battiato cineasta e il Battiato pittore, eppure i testimoni trattano quella produzione di Battiato con la medesima reverenza. Ed è qui che il film, mitizzando altresì tutta la sua capacità di raccogliere intorno a sé appunto nella casa di Milo amici e seguaci, si rivela un omaggio acritico, agiografico appunto, ricorrendo anche a una descrizione oleografica del paesaggio siciliano, con la musica di Paolo Buonvino che ci mette del suo.
Poi però, finiti i titoli di coda, Carmen Consoli canta Stranizza d’amuri – e uno si scioglie.
In sala dal 28 novembre
La voce del padrone. Regia: Marco Spagnoli; soggetto e sceneggiatura: Stefano Senardi, Marco Spagnoli; fotografia: Niccolò Palomba; montaggio: Jacopo Reale; produzione: RS productions; origine: Italia 2022; durata: 91′; distribuzione: Altre Storie con RS Productions.