Medfilm Festival: Rojek di Zaynê Akyol (Concorso)

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Il male sta là, in altre terre e Stati, magari neanche troppo lontani, e le ripercussioni su di noi sono perlopiù di tipo economico. Poi c’è stato un tempo in cui il male era qui, in mezzo a noi, e quando si presentava lo faceva per deflagrazione e si portava via con sé qualche centinaio di persone. Ormai pare un tempo lontano, in realtà sono passati pochi anni e aveva un nome: Isis, lo Stato Islamico. Daesh, in arabo. Rojek si propone di affrontare quel male nero, anzi, fa qualcosa di più, si propone di fare un’intervista al male per trarne conclusioni sull’origine e sui resti. Lo fa a volo d’angelo, sopra cocci di umanità su cui nere fiamme ancora crepitano. Lo fa a volo ristretto sui volti e le bocche di coloro che quelle fiamme le hanno appiccate. Lo fa chiedendo e ricevendo risposte, definitive e poi rinnegate.

Il mio cuore era felice quando sono entrato nello Stato Islamico. Prima mi mancava qualcosa.

E ora il tuo cuore è felice?

Il mio cuore è felice. Il mio cuore è felice, no?

Qualcuno era al checkpoint, i posti di blocco. Qualcuno era addetto all’arruolamento, qualcuno alla produzione di armi. Qualcuno ai pozzi di petrolio. Qualcuno al combattimento. Non sempre, perché a volte «era sufficiente alzare un telefono per conquistare una città». Ora però sono tutti qua, su una sedia all’interno di prigioni dal biancore accecante dopo che per anni il nero era il loro colore rappresentativo. E parlano, uomini e donne:

Ero libera. Mi sentivo davvero libera. Per il Daesh le donne sono sacre e libere, e io potevo andare dove volevo con il mio velo. È stato un periodo felice della mia vita.

E di nuovo:

Per l’islam la donna è come un diamante. È prezioso, deve essere quindi tenuto nascosto.

Poi ci sono loro, gli uomini. La loro vita è distrutta, non hanno speranza che possa popolare le mura delle carceri, solo il ricordo di quello che era uno Stato giusto:

Là era tutto giusto. Se un uomo cadeva dal quarto piano, voleva dire che praticava sodomia. Se all’angolo di una strada a un uomo veniva tagliata una mano, quello era un ladro. Se veniva decapitato, un mago.

O magari il Daesh era solo un luogo altro:

L’Isis è surreale.

E dal sogno, o incubo, qualcuno è persino uscito:

Noi soldati siamo qui, ma i comandanti ora dove sono?

E così accusa, le lacrime agli occhi:

L’Isis è finito, abbiamo fatto sciocchezze, ma voi non ci date speranza. Come potete pensare che io diventi meno estremista stando qui dentro? Ho bisogno di speranza.

Tra quelle bianche prigioni ci sono perciò loro, i soldati estremisti catturati in Siria. Quelli che sono arrivati da tutto il mondo, da quello arabo come dall’europea Germania, passando per la Turchia, e che ora non hanno più armi tra le mani ma sbarre. Oltre quelle quattro mura ci sono le loro famiglie, donne e bambini, e la mdp non li dimentica: voli d’aquila rasentano a bassa o alta quota vaste baraccopoli che giacciono a poche centinaia di metri da città i cui palazzi sono rovesciati nella polvere come tessere di domino abbattute. Ma l’aquila non si ferma, va oltre, e dalle città sorvola posti di blocco e pozzi di petrolio, scie di uomini e donne armate come formichine in lande desolate mentre la loro ombra li rende, dall’alto, giganti in cammino parallelo al suolo. Loro sono i curdi, e si stanno ancora difendendo.

Dopo Gulîstan, Land of Roses, nel quale la regista partiva dalla storia della sua tata per raccontare delle soldatesse curde al fronte, Zaynê Akyol torna a parlare di guerra che ancora brucia agli angoli della Terra, dopo che il resto del mondo quegli angoli non li spolvera da un po’. Cerca di spiegare l’origine del male, il male per eccellenza dell’Occidente, e lo fa alternando momenti di visione dall’alto e momenti di contatto ravvicinato con il singolo, ricercando nel montaggio tra questi due istanti una vena poetica che possa spiegare quanto la complessità dell’umano si leghi alla sua fragilità e quanto il male non nasca dal nulla, ma anzitutto dalla persona e poi possa sfuggire dalle mani. Il rogo a quel punto è incontrollabile. Si spiega come quel male possa essere strutturato e radicato con tale forza da essere difficile da sradicare: a volte non bastano neppure i colpi di sacchi di stuoia, continui e mirati, per fermare quel fuoco nero che non è sopito ma ancora divora campi e città e uomini:

Come posso rispondere senza finire nei guai.

Di chi hai paura?

Dell’Isis.

Dove sono?

Dimmi un luogo dove non ci sono.

Rojek è un documentario valido perché non vuole prendere parte e fronteggia oggettivamente l’umano. Il male alla fine deve avere un volto, e le lacrime si vedono anche sotto un velo o turbante che sia. Lo fa abbandonandosi all’arte del cinema e cercando di vedere nell’estremista prima l’uomo e poi tornando all’estremista, guadagnando così informazioni nel percorso.

Si rimane con la voce di un uomo, ex fondamentalista, che racconta come da piccolo cacciasse i cardellini insieme al padre e al nonno. Li attiravano nelle ortiche con il suono di una radio, li catturavano, uno a uno, per poi venderli a peso d’oro quando cominciavano a cantare. Ora i campi vengono bruciati, l’uno dopo l’altro, e le soldatesse curde perlustrano il territori senza sosta. Cercano dovunque, pure nell’ortiche. Viene quini da domandarsi: chi è il cardellino ora? E chi canta? Le fiamme intanto avanzano.


Rojekregia: Zaynê Akyol; sceneggiatura: Zaynê Akyol; fotografia: Arshia Shakiba Nicolas Canniccioni; musica: Sylvain Brassard; produzione: Metafilms; origine: Canada, 2022; durata: 128’.

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