Partiamo da due premesse. La prima: non sempre i ritardi nella distribuzione vengono per nuocere, perché permettono al recensore di aggiungere alla visione del film la lettura, la comprensione, la visione di altri materiali che aiutano ancor più della mera visione del film a farsi un’idea più precisa, a calibrare i toni, a parlare non tanto e non solo sull’onda della prima impressione ma in modo più articolato. Certo il rischio è che la visione del film subisca un’interferenza, ma ritengo che questa interferenza sia produttiva. La seconda: non capita spesso che la visione di un film di un autore, sconosciuto al recensore, provochi una incoercibile curiosità, una dipendenza della serie: voglio vederli tutti i film fatti fin qui.
Queste due premesse valgono entrambe per l’eccellente film del quarantaseienne regista rumeno Bogdan George Apetri e per il suo film Miracle, la distribuzione italiana (Trent Film sia lodata!) ha deciso di aggiungere il – non esattamente necessario – sottotitolo “Storia di destini incrociati”. Il film era stato presentato alla Mostra di Venezia nella sezione “Orizzonti” nel 2021, e arriva nelle sale poco più di anno dopo, nel frattempo è passato in almeno un’altra quindicina di festival e nelle sale è uscito oltreché in Romania anche in Francia.
Un Q&A di qualche mese fa al Festival di Pola (che si trova in rete) ci fa sapere che, caso più unico che raro, Apetri ha girato questo film insieme, letteralmente in contemporanea, con il precedente intitolato Unidentified, che in Italia – se non vado errato – si è visto solo all’edizione 2021 di Noir in Festival (Como/Milano). La cosa curiosa che spiega il regista è che lo stile dei due film è totalmente diverso: Unidentified è un film molto tradizionale nella regia e soprattutto nel montaggio Miracle che dura quasi due ore presenta solo 42 sequenze, è quindi un film, come si è soliti dire, stilisticamente rigoroso, austero, in cui il piano sequenza la fa da padrone. E il rigore stilistico, solo di rado a rischio estetizzazione e autocompiacimento, è il primo grande merito del film.
L’altro grande merito è la struttura. Il film è diviso in due parti che presentano numerose somiglianze quando non addirittura corrispondenze. Nella prima parte assistiamo a un lungo viaggio in taxi (con annesse conversazioni) fra una aspirante suora (interpretata da Ioana Bugarin) dal monastero alla città (è la città originaria del regista, ossia Pietra Neamt, 100.000 abitanti, 350 km a nord di Bucarest) per raggiungere un ospedale, capiremo solo dopo un po’ che cosa va a (non) fare. E poi c’è il viaggio di ritorno in monastero. Altro taxi, altro tassista. Quando chiede al tassista di fermarsi un attimo (come aveva fatto all’andata) per cambiarsi d’abito e rimettersi i panni di (aspirante) suora, succede il fattaccio, la ragazza viene picchiata, pestata e violentata. Da chi? Lo intuiamo ma non lo sappiamo, la macchina da presa resta distante e la violenza dell’atto ce la fa “solamente” ascoltare. Dissolvenza in nero. Ha inizio la seconda parte, al centro della quale c’è un investigatore (Emanuel Parvu) che vuole assolutamente, costi quel che costi, venire a capo del misfatto, con un accanimento tale da far quasi subito intuire che non si tratta solo di un puntiglio professionale. C’è dell’altro. E lo capiremo al più tardi quando l’ispettore va a trovare la ragazza in ospedale. Il puntiglio sfocia in molto di più: in accanimento, in tortura, in delinquenza nella scena finale. Anzi no, nel pre-finale, perché la scena finale illustra un altro finale, un finale alternativo, forse proprio quel miracolo di cui al titolo.
Il finale, i due finali sono solo l’ultima e più eclatante manifestazione di una dialettica – altro grandissimo merito del film: la vicenda raccontata è simbolica, ma non in modo meccanico, di qualcos’altro, di qualcosa di più grande – fra iperrazionalismo e fede o se vogliamo di modernità e arcaismo, su cui si regge la gran parte del dialogo fra i personaggi, una dialettica in primo luogo rappresentata dai due personaggi principali, l’aspirante suora e l’iper-razionale ispettore, non credente. La Romania (probabilmente non solo la Romania) si trova al discrimine fra queste due realtà, appunto fra nuovo e antico, senza che Apetri (altro merito!) si schieri in modo ideologico da una parte oppure dall’altra. O meglio: la bravura del regista (e sceneggiatore) consiste nell’obbligarci a cambiare prospettiva, quasi di continuo, a schierarci ora in un modo ora nell’altro, fino alla conclusione, dove giustamente, lo spettatore non sa più dove schierarsi, che cosa pensare, a che cosa credere – a tutto questo il film perviene senza per questo diventare un mind game movie compiaciuto della propria sostanziale incomprensibilità.
La dialettica antico/moderno è esemplata anche dalla musica diegetica rigorosamente rumena (anche se a un certo punto vengono menzionati anche i Ricchi e Poveri e Toto Cotugno) che proviene per lo più dall’autoradio ma anche da altre radio in giro per ispettorati, case ed ospedali.
Per chi volesse saperne di più: Miracle è il terzo film di Apetri, il secondo è quello già menzionato, il primo risale al 2010, s’intitolava Periferic e partiva da un soggetto di un collega nient’affatto male, ossia Cristian Mungiu. E visto che siamo a parlare di grandi autori, in moltissimi momenti del film si respira un’atmosfera che ricorda molto molto da vicino Krzysztof Kieślowski.
In sala dal 27 ottobre
Miracol – Regia, sceneggiatura, montaggio: Bogdan George Apetri; fotografia: Oleg Mutu; interpreti: Ioana Bugarin (Cristina), Emanuel Parvu (Marius); produzione: The East Company Productions, Cineart TV, Prague, Tasse Film, Czech Film Fund; origine: Romania, Repubblica Ceca, Lettonia 2021; durata: 118′; distribuzione: Trent Film.
Per me nella ultima scena finale quando l’investigatore sa che la ragazza è morta si comporta da vigliacco cioè in qualche modo se ne lava le mani lasciando libero l’assassino