Germania, 1932. Hugh, Paul e Lenya brindano ad una generazione perduta – e come potrebbe essere altrimenti? Intorno è tutto un vociare di ubriachi, spira un’aria di festa e di guerra. La villa su cui si apre il lungometraggio sembra quella del Grande Gatsby e le luci abbacinanti che ci investono celebrano la fine di quel periglioso stato di grazia altresì chiamato Repubblica di Weimar.
Le parole Germania e 1932 farebbero rabbrividire chiunque, compresi i nostri protagonisti. I quali, infatti, alzano al cielo la bottiglia di Champagne: il limbo apertosi fra il vecchio e il nuovo mondo, fra gli sfolgoranti riflettori dei varietà e le maschere antigas, fra i tempi che furono e i tempi che saranno si sta per chiudere. Le lancette scorrono sempre più veloci, il delicato meccanismo a orologeria che batte nel cuore dell’Europa libera sta per incepparsi.
Il regista tedesco Christian Schwochow chiude il cerchio lasciato aperto da Paula (2016), pellicola biografica interamente dedicata alla vita della pittrice espressionista Paula Modersohn-Becker e conclusasi, per l’appunto, agli esordi del ventesimo secolo. Poi, una voragine di circa trent’anni ed ora eccoci qui, dispersi in un turbine di bollicine e fuochi d’artificio insieme a tre giovani studenti dal riso infelice – che la causa sia la musica, il vino o la consapevolezza d’esser nati nel posto sbagliato al momento sbagliato, non è ancora dato sapere. Monaco – sull’orlo della guerra esordisce, in effetti, ai margini della cronologia più recente e di lì non si sposta: tratto dall’omonimo best-seller del noto giornalista britannico Robert Harris, il film intesse un curioso arazzo nel quale documento storico e illusione cinematografica finiscono per sovrapporsi. Il metodo è lo stesso che diede alla luce, nel lontano 2013, L’ufficiale e la spia magistralmente portati in scena da Roman Polański due anni or sono: che si tratti del famigerato Affaire Dreyfus o del secondo conflitto mondiale, lo sguardo di Harris risulta sfuggente, ellittico e spesso tende a sgattaiolare oltre le istantanee di cui la memoria collettiva si compone.
La cinepresa, dunque, inscrive i fotogrammi su due livelli: il primo è quello di un passato cosiddetto ufficiale, forgiato dai potenti e dal loro ingombrante lascito. Così, ci inoltriamo nei meandri della Conferenza tenutasi a Monaco fra Adolf Hitler, Édouard Daladier, Benito Mussolini e Neville Chamberlain nell’incerto autunno 1938. Dietro ai trattati e ai grandi autografi, tuttavia, si cela l’inganno romanzesco o, se vogliamo, una Storia reale soltanto in potenza – quella di tre giovani studenti dal riso infelice incontrati per caso durante una catastrofica e abbacinante nottata del ’32. In particolare, Hugh Legat (George McKay) e Paul von Hartmann (Jannis Niewöhner) ci appaiono come pedine piazzate dall’autore nel reperto archeologico per vivificarne le membra: entrambi assunti come diplomatici, i due ex amici si ritroveranno a recitare (non senza una certa goffaggine) il ruolo di informatori nel pallido tentativo d’arginare la follia hitleriana. Il racconto narrato dai due ragazzi rimarrà, come ogni romanzo che si rispetti, imprigionato all’interno delle sue ipotesi: trama e sottotrama, sfera pubblica e sfera privata, verità e finzione s’intersecano solo per brevi e fugaci istanti, senza mai davvero amalgamarsi l’una nell’altra.
Hugh e Paul sono le rappresentazioni monodimensionali di un universo fatalmente articolabile in compartimenti stagni: misurato e circospetto il primo, appassionato e impulsivo il secondo, i due funzionari-fantasma desidererebbero forse un corpo tangibile nonché posare, per una volta, la maschera conferitagli dalla loro epoca, ma sono obbligati a camuffarsi da inglese e da tedesco. A rinverdire il mazzo sono, inoltre, una materna e coraggiosa Helen Winter (per intenderci, la figlia del celeberrimo Toni Erdmann) e l’immortale bastardo senza gloria August Diehl, ora parte del corredo militaresco che il Cancelliere porta con sé in Baviera. I confini nazionali sagomano il volto di ogni individuo, nessuno escluso: nemmeno il Führer, qui ritratto attraverso gli occhi che ieri lo osservarono e, stringendo il vessillo della paura e del fanatismo, lo trainarono fino al Reichstag. L’Adolf Hitler dipinto da Schwochow e interpretato da Ulrich Matthes (guarda caso, l’ex Goebbels del ben più noto Der Untergang) è gracile ma terribile, inerte ma sagace, ottuso ma onnisciente: una figura, insomma, sospesa ai margini della tragedia e del grottesco così come l’intero lungometraggio.
Una menzione d’onore va invece ad un inedito Neville Chamberlain: grazie a Jeremy Irons, difatti, il controverso predecessore di Winston Churchill ritrova una dignità finora negatagli proprio da quella memoria collettiva che Harris, nelle sue opere, si diverte a strattonare, deformare, riplasmare in continuazione. Il Primo Ministro britannico incarna il fulcro dell’intera epopea, la stella attorno a cui ruota il drammatico sistema solare, l’unica persona visibile in questo mirabile roveto d’evanescenti figurine: il regista ce lo affresca nelle sue incertezze, nella sua tiepida ambiguità, nell’apatica perspicacia che contribuì a istituirne il crudele mito. Da comprimario, Chamberlain si fa protagonista, avvicinandosi alla ribalta e recitando il cinico monologo che ci accompagnerà fino al baratro finale, fino alla più sanguinosa delle apocalissi umane. Per comprendere il presente che diventa passato occorre, com’egli spesso ripete, formularlo al futuro: una lezione che Hugh, Paul e Lenya impareranno a loro spese.
Dal 21 gennaio su Netflix
Cast & Credits
Monaco – sull’orlo della guerra (Munich: The Edge of War) – Regia: Christian Schwochow; sceneggiatura: Ben Power; fotografia: Frank Lamm; montaggio: Jens Klüber; interpreti: Jeremy Irons (Neville Chamberlain), George MacKay (Hugh Legat), Jannis Niewöhner (Paul von Hartmann), Sandra Hüller (Helen Winter), Liv Lisa Fries (Lenya), August Diehl (Franz Sauer), Jessica Brown Findlay (Pamela Legat), Anjli Mohindra (Joan), Ulrich Matthes (Adolf Hitler), Mark Lewis Jones (Sir Osmund Cleverly); produzione: Turbine Studios; origine: Regno Unito, Germania 2021; durata: 131’.