Non è un calcio per vecchi! Decisamente no. E non è una sentenza riferita a quello praticato in campo, dove per altro i vecchi, tra virgolette, sono ancora lì che segnano: vedi Ronaldo, prodigo nella “natìa” Manchester; vedi Ibrahimovic, che quando non sta male insacca ancora che è una bellezza. Vedi Quagliarella, di tacco in coppa Italia, e vedi anche Pedro, che appena raggiunta l’altra sponda del Tevere ferisce di piattone destro l’incredulo – ma nemmeno troppo – popolo giallorosso. E tutti insieme, rugosi e fieri, questi attempati fuoriclasse, stanno lì a farci chiedere dove siano i loro eredi.
No, il calcio non per vecchi è quello giocato, a volte con passione urlante, sui divani d’Italia, in solitudine o compagnia. Non è per il mio povero suocero, per esempio, questo calcio non per vecchi: impasto di streaming e piattaforme sgomitanti, di dispositivi portatili e manciate di telecomandi ostici, di alieni operatori OTT. Non è per lui questo calcio ghiacciato da simpaticissime rotelline bianche, che girano strafottenti pigliandosi milioni di brutte parole perché annullano lunghi spezzoni di partita. Non é per mio suocero questo calcio che la Champions qui, il Campionato li, oppure di là, ma alcune gare qui, sette, no otto, ma devi avere il decoder, anzi no, o forse si, boh.
L’ho visto stanco, tempo fa, il mio suocero instancabile, fedelissimo osservatore di partite alla tv. Esangue davanti a gesti sempre più complessi e a nomi sempre più difficili da memorizzare. Che ci hanno pure provato a spiegargli cos’è Tim Vision, Amazon Prime Video, ma lui, stavolta, dopo tante battaglie vinte, dopo tanti esami superati da navigato telespettatore sportivo, aveva lo sguardo nel vuoto, di sommessa rabbia ed embrionale disperazione. Quando gli hanno parlato del chromecast, “che con questo, papà, hai tutto a portata di mano, è una figata e guarda che se impari non è poi così difficile”, nei suoi occhi mansueti ho letto, come mai prima di allora, la possibilità, poi scongiurata, per fortuna, di un attacco di rabbia. Fino a “Dazzonne”, come lo chiama lui, aveva resistito alle tempeste, forte del sostegno, spesso interessato, di un figlio o di un genero tecnologico, che paziente per compassione (intesa come sentimento in comune) era sempre stato disponibile a manovrare pulsanti e collegare fili, degno esponente di quelle generazioni nuove abbastanza da mostrarsi abili a pigiare i tasti con disinvoltura e a destreggiarsi rapidamente tra le icone. Quel nuovo che il vecchio guarda forse stupito e smarrito, e prende magari più aspramente coscienza della sua avanzata stagione, ma al contempo può pensare a quanto il giovane sia imbrigliato e imbrogliato in mille cavilli che lo rendono più schiavo e zavorrato che altro.
Riflessioni possibili, non da escludere, di chi ha vissuto a lungo, di chi come mio suocero è cresciuto con la radio, e poi si è goduto i mercoledì d’Europa sulla Rai: Martellini, Giorgio Martino, fino alle apicali vibrazioni psichedeliche, deliziosamente faringee di Bruno Pizzul. Quella generazione che ha superato le colonne d’Ercole alla fine degli anni ottanta, spingendosi fino ai tasti cinque e sei con la réclame di pochi secondi tra le azioni. Sacrilegio poi divenuto prassi. La generazione che ormai matura è approdata ai suoni sovraccarichi, eccitati ed immersivi di Sandro Piccinini, alle sue barocche sciabolate cccezzzionali, o alla voce pericolosamente soporifera di Bruno Longhi, che se in una fredda serata infrasettimanale di Coppa Italia, di quelle che la mattina ti eri alzato presto, si finiva ai supplementari, correvi forte il rischio di svegliarti la mattina dopo dovendo chiedere come fosse finita la partita.
Ha viaggiato dentro Tele+, mio suocero, ha visto la cicala di Stream e si è addentrato nel mondo pay per view a cavallo dei millenni, del digitale terrestre e della dicotomia tra chiaro e criptato, con l’inquieto e abituale quesito: “Dove la danno la partita?” Con la speranza, sotterranea, nostalgica, silenziosa (anche per lui che come una medusa che si lascia trasportare dalla corrente si è dotato sempre di ogni mezzo necessario), di poterla vedere come ai vecchi tempi: semplicemente accendendo la TV. Sul primo, sul due, sul cinque. Per tornare, romanticamente, per un po’ al suo primitivo telecomando, amico semplice, compagno di un tempo perduto, per riallacciare, per una sola notte, quel loro novecentesco rapporto speciale.
Perché alla fine, in chiaro, sulla Rai era, e forse è ancora, più bello. Per abitudine, probabilmente, per i più o meno anziani, o forse no. Per mio suocero probabilmente, che è un appassionato, onnipresente, tifoso casalingo, e certe volte vede la serie c su Rai sport, e le partite a casa sua, nel suo accogliente porto campano, sono sempre state una garanzia. Divano ampio, televisore all’altezza: lui al centro di una lunga morbidezza in finta pelle, con la curva e qualche cuscino qua e là. Fermo. Silenzioso, puntuale. Concentrato. Poi tutti gli altri, a volte tanti, altre pochi, col suo sguardo quasi mai cadente sui lati. Ogni tanto, durante l’azione pericolosa, si lascia andare ad un “oiocoì”, o qualcosa del genere, che con gli anni ho capito il significato: vuol dire “eccolo, eccolo lì, sta per succedere”. È dialetto napoletano ed è riferito al goal possibile, vicino.
Per il resto nessun suono da parte di mio suocero. Nemmeno al goal realizzato. Però che da quel televisore esca il verde del prato, durante i giorni di campionato o coppe varie , è sempre stato matematico, ed è stato bello, quando travolto dai mille impegni della vita adulta, con i figli piccoli e bisognosi di mille attenzioni, con la moglie esausta e non sempre incline a concederti una pausa per farti gustare la partita, arrivare in quella casa e cadere automaticamente, dolcemente, inevitabilmente, dentro la partita, magari facendo finta di vivere la circostanza con un certo distacco, tra parenti vari in giro per casa, che la moglie pure, magicamente, non ha saputo dirti no, anche se i figli piccoli urlavano e piagnucolavano. L’altra volta, il mio povero suocero ha staccato la fire stick TV perché pensava che interferisse con Sky e qualcuno ha iniziato a borbottare, a rimproverarlo per la sua incapacità di gestire l’apparato tecnico. Lui è rimasto silenzioso, con gli occhi fermi sulla fila di telecomandi uno accanto all’altro, sul divano. Ha sospirato, non ha detto nulla, ma il suo sguardo era di nuovo ingrigito e non mi stupirei, se quando tornerò a trovarlo, nel giorno di una partita di cartello, lo scoprirò vicino ad una vecchia radio, poeticamente accesa su frequenze di stagioni volate via da tempo, a ripensare a quando le partite erano tutte alla stessa ora e con un giro di manopola cominciavi a viaggiare per l’Italia con le note e gli strumenti musicali di Ciotti, Ameri, Luzi, Dotto e Bortoluzzi.
E ti sentivi umano, vivo, rispettato, accolto, accarezzato dalla tua passione per il calcio, in armonia con lui e col mondo, anche se la partita non la vedevi. Pero li, almeno lo sapevi dall’inizio.