Resurrexit Cassandra di Jan Fabre

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Lo spettacolo in soldoni è il seguente. Cinque atti, ognuno dominato da un colore, nero rosso blu verde bianco, con musiche dei Beatles a sottolineare il passaggio dall’uno al successivo: Strawberry fields, Here comes the sun, Revolution, Blackbird. Il palcoscenico un rettangolo bianco coperto da statuette di cobra e serpenti, sullo sfondo dimenarsi Cassandra stessa armata di ascia. Negli atti, invece, in ognuno di essi, una Cassandra in evoluzione come in dissoluzione. Perché Cassandra era morta, o meglio, era stata ammazzata. Vittima innocente divorata dalle accettate della vendicatrice Clitemnestra, ora risorge pezzo per pezzo con i vari arti e non, mani braccia piedi ventre, che emergono dalla Terra e dalla rena del mondo – Damasco, Micene etc etc –, si riuniscono per comporre quella gola, quel buco nero che pieno di terra si prepara a eruttare fango, fisico e metaforico. Perché Cassandra

ha visto tutto!

e il mondo quel tutto non lo vuole sentire.

Sonia Bergamasco è la Resurrexit Cassandra di Jan Fabre per regia e testi di Ruggero Cappuccio. Partendo da una rilettura della donna troiana di Christa Wolf (testo femminista pubblicato nel 1983 sotto forma di monologo interiore), Bergamasco risorge profetessa di sventure e viaggia nei secoli, millenni, sino al nostro presente. Qui ricerca liberazione che deve però passare attraverso la fuoruscita di fango, il proprio fango, fatto di parole di un linguaggio difficile da digerire. Le parole pronunciate da Cassandra/Bergamasco sono infatti parole biologicamente e letteralmente grasse. Riempiono le orecchie e le strozzano, fisiologicamente ardue da poter ascoltare per qualsiasi umano, così per noi spettatori, che le ascoltiamo. E l’effetto, questo pasto nudo pesante di suoni, è amplificato per contrasto dalla dolcezza delle musiche, quelle del gruppo più famoso della storia che appunto allegeriscono l’ascolto e permettono di rilanciare un lavoro che rischia di essere inizialmente faticoso. Ma sulla fatica, la nostra, di pubblico, torneremo poi.

Sonia Bergamasco è brava. È brava perché non è enfatica, rimane fedele a parole che già gravose lo sono per natura linguistica, ed è versatile per quella versatilità che non è stacco netto di interpretazione tra una Cassandra è la successiva, la nera rossa blu verde bianca, ma minima distanza tra quelle stesse Cassandra. È lì, nel minimo cambiamento dello stesso personaggio, e non nell’avere cinque personaggi differenti, che sta la bravura dell’attrice. Oltre per la capacità e la leggerezza di sostenere un monologo di una settantina e rotti di minuti. Ma Cassandra è lì, riportata tra di noi e ci dice verità che i troiani non hanno voluto udire, che gli uomini duranti i secoli non hanno voluto ascoltare e che ora noi non vogliamo sentire:

Un arcipelago di plastica viaggia per l’oceano, una piega purulenta.

Cassandra fuoriesce dalle pagine dell’epica come l’acqua che bolle si riversa sul piano cottura. Ai troiani, ai nostri nonni e bisnonni, a noi urla: «maledetti!». Per non averla mai creduta, per averla infangata, per averle data dalla «visionaria e puttana» e per insultarla di nuovo mentre continua a parlarci e accusarci di aver distrutto il mondo con due guerre mondiale e di cercare di finirlo ora rovinando madre natura. Perché Cassandra è anche quella, madre natura. Perché Cassandra, come lo era per il testo di Christa Wolf, è donna per tutte le donne. Tuttavia, di ciò che Cassandra era, per l’epica, rischia di perdersi. È uno dei rischi della trattazione del mito quando da quello si parte e poi tant’altro in esso si vuole vedere: alla fine il personaggio è tutto, tranne forse se stesso e l’intensità che il personaggio porta con sé, proprio in quanto persona dietro al personaggio, rischia di venire dissipata nel legarla a tutti i problemi del mondo. Ciò che stiamo vedendo è Cassandra o non è Cassandra perché Cassandra è tutto?

Perché d’altronde è di intensità che si sta parlando, e di fatica di seguire lo spettacolo per la sua durata. I primi quaranta minuti di Resurrexit Cassandra risultano faticosi quanto gli ultimi trenta sono invece efficaci. Sarà perché bisogna abituarsi al ritmo della rappresentazione – monologo + musica dei Beatles -, sarà perché è necessario un minutaggio considerevole per entrare nella logica dell’evoluzione del personaggio, sarà perché appunto quella che vediamo non sembra tanto Cassandra figlia di Priamo quanto Cassandra femminista e Cassandra ecologista e Cassandra voce della sofferenza di ogni tempo, MA non una Cassandra che effettivamente carne e ossa e sangue e vizi e desideri e voglie e pianti e amori sia mai stata. Sarà perché Cassandra è tanto umana da non sembrarlo affatto umana.

Sarà perché Cassandra/Bergamasco è veramente brava ma non pulsa, è essenzialmente immobile e il suo personaggio pare a tratti persino godere delle sventure che dice in un moto di liberazione che suona come autodistruzione disperata mentre il suo linguaggio si attenua e inizia a mescolare presente passato futuro. Sarà perché lo spettacolo non è per tutti e quindi il callo bisogna averlo per pazientare quaranta ed essere ben ripagati nei successivi trenta minuti.

Sarà per tutti questi motivi, eppure alla fine dello spettacolo, dopo aver goduto dell’ottima interpretazione e del buon testo, una riflessione e un senso di rammarico rimane: perché quella Cassandra armata di ascia, furiosa e vendicatrice, è rimasta là, sullo sfondo, e non si è riversata sul palcoscenico cercando di convincerci veramente del valore del suo dire? Perché ha voluto perdere il lato più viscerale di donna, donna del tempo troiano, su cui l’intero libro di Wolf verteva, aprirsi a ogni cosa, persino alla lotta climatica, e farsi voce più che corpo vissuto, solo voce, e finire per disgregarsi laggiù, nel delirio bianco? Insomma, perché lei, ora risorta, non ha voluto tentare fino all’ultimo, all’ultima parola, estremo verso, suono finale, magari gesto e azione risolutoria di ricevere quello che mai e poi mai le è stato dato, e cioè il preziosissimo ascolto?

Forse perché lei può dire solo parole dure e le parole, alla fine, sono solo un «gioco di prestigio» e di noi, uomini e umanità, resterà poco come

Di Caravaggio, infine, non rimarrà un centimetro di rosso.

Forse forse perché le parole gridate funzionano poco. Quelle di cui abbiamo bisogno adesso, da parte di chi tutto ha visto, sono parole di miele. Parole di miele e speranza.

Spettacolo andato in scena dal 4 al 9 ottobre al Teatro Vascello, Roma.


Resurrexit Cassandra ideazione, regia, scenografia, video: Jan Fabre; testo: Ruggero Cappuccio; interprete: Sonia Bergamasco; musiche originali: Stef Kamil Carlens; effetti sonori: Christian Monheim; disegno luci: Jan Fabre; costumi: Nika Campisi; assistente alla regia e drammaturgia: Miet Martens; direzione tecnica: Marciano Rizzo; fonico: Marcello Abucci; direzione di produzione: Gaia Silvestrini; costumi: Officina Farani; foto: Hanna Auer, Marco Ghidelli; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival, Troubleyn/ Jan Fabre, Carnezzeria srls, TPE Fondazione Teatro Piemonte Europa.

Film

Direttore della fotografia: Rutger- Jan Cleiren; cameraman: Kasper Mols, Charles Pacqué; aiuto regista: Alma Auer; tecnico luci: Duncan Kuijpers; assistente di produzione: Annemiek Totté.

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