Revenant – Requiem per Ryūichi Sakamoto

La morte e la musica si prendono spesso per mano e danzano insieme.
La morte guida, tendendo il filo dell’esistenza oltre le ombre fugaci del nostro vivere quotidiano. La musica segue, ondeggiando nell’abbraccio stretto, come la fanciulla schubertiana immortalata nel più celebre dei Lied. In mezzo c’è il silenzio e l’eco del buio.

Ryūichi Sakamoto (1952-2023) ha danzato lungo l’arco di tutta la sua carriera con la morte, interrogandosi, a ogni nota, sull’insostenibile fragilità del suono. Lo ha fatto da compositore del nuovo millennio (era nato nel dopoguerra in un Giappone che, uscito dal suo delirio imperialista doveva ritrovarsi sotto lo sguardo dell’Occidente), con gli occhi rivolti alla sperimentazione elettronica e il cuore – tremolante come candela tra gli spifferi – del tardo romanticismo di Satie e Debussy. Come compositore del nuovo millennio, ha fatto della fluidità il centro propulsivo di un percorso compositivo irto di complessità che sfociavano in un’apparente semplicità. Sarà anche per questo che buona parte della sua carriera compositiva poggia sulla più fluida delle arti: il Cinema.

È qui, infatti, che si consuma uno degli incontri più fecondi della sua vita multiforme, quello con l’opera di Bernardo Bertolucci. Nelle immagini del maestro italiano, Ryūichi Sakamoto riscopre la fluidità del viaggio, dello sperdersi tra le mille contrade del mondo, dello smarrirsi tra stili, forme, dinamiche di volta in volta diverse. Basti ascoltare l’impaginato del Main Theme di The Sheltering sky (Il Tè nel deserto) per rendersi compiutamente conto della complessità del gioco musicale.

Qui il celeberrimo tema, affidato agli archi acuti, si apre come un punto interrogativo che ritorna costantemente su se stesso per non ritrovarsi mai, in un diminuendo di grande espressività che ricorda certe pagine del Debussy di Children’s corner (un debito che si percepisce ancor meglio quando si ascolti la versione pianistica del brano). Eppure il successivo inspessimento della maglia orchestrale, che sonda tonalità più gravi, conduce a una sezione mediana dall’andamento accordale, irto di sospensioni, che rendono precarie e instabili anche le sporadiche riprese del riconoscibilissimo inciso melodico. Frattanto l’alternarsi icastico tra unisoni e silenzi (una delle cifre distintive del suo pensiero musicale) rendono il senso di una meditazione profonda sul senso della morte, come nella pagine (guarda caso, ancora per archi, anche se lì di viole si parla) di un compositore rinascimentale come Dowland. La musica, come più tardi avverrà con il capolavoro di Iñárritu, The Revenant, si confonde così col paesaggio fotografato dalla pellicola, al punto di riempirsi di echi discreti (regalatici dall’inserto elettronico) di distanti percussioni e della voce del canto coranico che si confonde tra le dune.

Ne deriva un alto anelito di spiritualità che flirta con religioni diverse, trovandosi stranamente di casa con tutte. E se qui è il mondo islamico a suggestionare la musica, in Little Buddha (Piccolo Buddha), sarà invece, la riflessione sul vuoto della Śūnyatā a spingerla verso vette più rarefatte e, al tempo spesso, più formalmente complesse.

Qui l’architettura del brano, soprattutto nella prima parte, flirta con profondità sinfoniche. Il materiale, affidato come consuetudine alla compagine degli archi acuti, disegna volute eteree sul tessuto accordale degli archi gravi. Un’introduzione per l’ingresso della voce del soprano che, inaspettata, commenta le immagini della cerimonia funebre del monaco di cui sono state appena riconosciute le reincarnazioni. Vita e morte, estremi di uno spettro, riflesse l’una nell’altra dal punto di vista narrativo, si innalzano su tonalità sempre più alte, sino a sperdersi oltre l’udibile. Sembra un’ultima affermazione di fede ed è invece ancora una domanda, forse anche perché la fede è sempre un chiedere e un tornare a chiedersi. Ma il vuoto che consegue prepara uno spettacolare movimento a ritroso: recuperato un andamento rapsodico, ecco riaffacciarsi, uno dopo l’altro, i temi che avevano accompagnato le immagini di tutta la pellicola. Al suo morire, il film rinasce, ritorna alle origini, sino a cadere in un ultimo accordo sostenuto che chiude senza risolvere (almeno nel senso dell’armonia occidentale).

Del resto, Ryūichi Sakamoto è compositore che arpeggia con l’elettronica (era membro costitutivo della Yellow Magic Orchestra, scanzonatissimo trio ad alto tasso sperimentale) e ha inciso nelle vene il senso di un percorso compositivo che non ha più bisogno di volersi lineare. Il suo tempo, costantemente ripiegato su se stesso, tende naturalmente all’eterno. Lo ha capito, forse, meglio di tutti Luca Guadagnino, quando ha voluto la sua musica per cantare l’irripetibilità del momento amoroso in Call me by your name (Chiamami col tuo nome).

Il brano utilizzato dal regista italiano (M.A.Y In the Backyard) ricorre due volte all’interno del suo progetto narrativo, a segno di un uso strutturale della musica preesistente (la data di composizione è 1996) che per certi aspetti ricorda addirittura il cinema di Visconti. La prima volta è subito dopo la prima passeggiata in bicicletta dei due protagonisti, a raccontare tutta la difficoltà dell’inizio di un dialogo, di un venirsi incontro, di un capirsi da parte dei personaggi. La seconda volta coincide col momento in cui Elio si sta facendo la barba, subito prima di dichiarare, ai familiari, l’antipatia che crede di provare nei confronti dei modi sbrigativi di Oliver. Le due apparizioni del brano musicale raccontano la difficoltà dell’incontro con l’altro e, quindi, con se stessi (il guardarsi allo specchio per radersi: segno di un cercarsi nel confine tra mondo adulto e infanzia). Di più, col suo ritmo puntato, con le sonorità irte del pianoforte cui presto si aggiunge il violoncello, la musica mette in scena l’erompere di un erotismo incontenibile, unico mezzo conoscitivo per affrontare il mondo e per entrare in contatto con la propria stessa interiorità. In fondo, lo stesso tema affrontato in The Sheltering Sky, ma qui calato nei sereni paesaggi del cremasco, con una visione dell’eros che scivola serenamente nelle proporzioni auree del classico e dove la dimensione transeunte del trasporto amoroso si riflette nell’eternità dall’arte ellenistica. Ed ecco che, una musica, non composta per questo, finisce per piegarsi a raccontare ancora una volta del sentimento della fine che respira già all’inizio di ogni cosa, colorandola di malinconia.

M.A.Y In the Backyard ci parla così di un altro Ryūichi Sakamoto: quello amante del minimalismo di John Cage, cui deve molto del suo pensiero musicale pianistico, ma memore anche delle atmosfere orchestrali di un John Adams. Ed è quest’ultimo compositore americano, quello che ci viene in mente quando pensiamo alla colonna sonora di The Ravenant. Anche lì, come qui, il minimalismo musicale si esaspera in un gesto sonoro che è continua sfida e perenne ritorno (o resa) al silenzio. Anche qui, come lì, l’orchestra respira con la stessa grandiosità di un paesaggio schubertiano.

Lo si diceva all’inizio, nella sua musica, Morte e Vita continuano a danzare insieme, tendendosi la mano. La grandezza, in fondo, di Sakamoto è stata la sua capacità di danzare con loro. E, ora che la Morte lo ha raggiunto, a noi non resta che seguirlo di lontano. Attraverso tutto il mistero che è rimasto.

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