Il cinema dei fratelli Taviani è stato, forse, il pianto pascoliano del cielo stellato. Ha lasciato intendere, sulla lunga durata di una produzione che affonda le radici negli ultimi bagliori degli anni ’60, un senso di poesia che, come stella cadente, è una stilla di luce a illuminare il buio circostante.
Un cinema, il loro, nato all’ombra di Rossellini, ma prima di tutto figlio di un realismo che sapeva caricarsi di magia nella sua capacità di entrare sottopelle nei personaggi che raccontava, riemergendone con lacerti di sogno e numinose visioni d’inconscio. Così, anche quando sfiorava temi e modi legati al neorealismo, l’immagine si caricava di suggestioni altre. Dalla vocazioni politica che ribaltava il linguaggio del film come un proverbiale pedalino (San Michele aveva un gallo, Allonsafan), ai paradossi tra maschera e vita desunti dall’amatissimo Pirandello (Kaos, ma anche il meno riuscito Tu ridi e Leonora addio, diretto dal solo Paolo), dall’amore metareferenziale per il cinema (Good morning Babilonia), ai tuffi carpiati nella grande narrativa classica, colta in punta di penna e con sapienza illustrativa (Le affinità elettive da Goethe, Padre padrone da Gavino Ledda, Una questione privata da Fenoglio); i loro film, a gradi e in modi diversi sono tutti una grandissima serie di variazioni sul tema dell’immaginazione e del sogno che abbiamo sottovalutato, ottenebrati dalla nostra abitudine a Fellini che ci è sembrato, per troppo tempo, l’unico che avesse qualcosa di originale e importante da dire sulla questione.
Tutto filtrato da un bisogno di affabulazione, da un desiderio inesauribile di perdersi nelle spire dei racconti, in cui il senso profondo di una struttura disperatamente romanzesca serviva prima di tutto e non cedere troppo alla lusinga di immagini, spesso di rara potenza evocativa (si pensi alle meraviglie di La notte di San Lorenzo), di altissimo spessore epifanico.
Sì, perché per i due Fratelli del nostro cinema migliore, raccontare è sempre stato un po’ come respirare, un tentativo estremo, meraviglioso e indicibile di riordinare nell’ordito di una trama tutte le incertezze della vita, tutti i paradossi di un mondo che riesce veramente a essere solo quando trova qualcuno come loro che sappia farne materia di racconto. Stupisce, allora, che l’incontro con Boccaccio (Meraviglioso Boccaccio) sia stato così tardo: appena nel 2015, tre anni prima della morte di Vittorio e nove prima di quella di Paolo, avvenuta appena qualche giorno fa. Stupisce perché il mondo medioevale della novella decameroniana sembra essere il correlativo perfetto della visione affabulatoria dei Taviani (forse anche più delle Novelle per un anno pirandelliane che pure hanno esercitato il loro fascino tra le inquadrature dei registi), ma stupisce anche in virtù della tanta Toscana che respira, invece, forte, un po’ in tutto il loro cinema, con la dolcezza virente di colli leggeri e l’azzurro solcato da rade nubi di un orizzonte mai troppo lontano.
In una visione registica che miracolosamente riesce a mantenersi immutata anche quando si piega a tempi e modi televisivi (Resurrezione del 2001 e Luisa Sanfelice del 2004), il cinema dei Fratelli Taviani è stato capace di mantenere dritta la rotta anche nell’apparente cambio di registro che sembra di cogliere tra i primi e più rivoluzionari prodotti del loro estro (Un uomo da bruciate, I sovversivi, Sotto il segno dello scorpione) e la solo apparente accademia dal polveroso sapore viscontiano che si sente ad esempio in opere più tarde come Fiorile o La masseria delle allodole. In verità non nello stile, ma nel rapporto tra Reale e Immaginazione si coglie il senso di continuità di un’opera capace di inverarsi anche quando lascia la pagina scritta per avventurarsi nelle spire del documentario, laddove il Vero si riflette nella finzione, come nel corto circuito teatrale di uno Shakespeare riletto alla luce dell’onnipresente Pirandello come avviene in Cesare deve morire, l’ultimo spettacolare colpo di coda di un magistero che da più parti si diceva ormai esaurito e, invece, capace di foschi bagliori già presaghi dell’oggi che viviamo.
E chissà cos’altro avrebbe detto Paolo proprio di quest’oggi, nell’ultimo suo progetto che, sulla carta, doveva parlare di Covid, forse sulla linea di un Boccaccio, forse ritrovando le dimensioni alte del documento di poesia. Non lo sapremo mai. E anche per questo ci sentiamo un po’ più poveri.