È un mondo divoratore, carnivoro, quello del film La corruzione di Mauro Bolognini, che uscì “domani”: sessant’anni fa precisi, il 22 novembre del 1963. È un mondo riassunto nella Milano del boom, di luci notturne, delle scritte Cynar e Cinzano gigantesche sulle facciate del centro, con lampadine a migliaia. Degli imprenditori vincenti e degli oggetti al centro di tutto, con le idee ai margini, carta straccia. È lo spazio della lotta tra denaro e ideali, tra potere e libertà, tra purezza d’animo e corruzione, appunto. Inizia con due didascalie, questo film non tra i più famosi del regista toscano, ma tutt’altro che trascurabile, anzi. La prima diretta, breve, scritta bianco su nero, estrapolata da Charles Baudelaire: «Anche se Dio non esistesse, la religione sarebbe pur sempre santa e divina».
La seconda vocale, più lunga e complessa, indiretta ma comunque teorica sul film. Resa diegetica dalla voce del preside del collegio frequentato dal protagonista Stefano, interpretato da un Jaques Perrin giovane ma senza sorriso, combattuto e solo, prigioniero di suo padre e di un tempo rampante, sfrenato e arido. Sta per lasciare l’istituto in cui ha studiato, questo giovane dai lineamenti regolari e dalla sensibilità spiccata, unico figlio di un imprenditore arrogante e scaltro, anche spietato, nonostante dica che «dà da mangiare a 500 famiglie», e di una donna (Isa Miranda) ricoverata in una clinica psichiatrica. Ha appena conseguito il diploma, Stefano, e durante la cerimonia di consegna, il dirigente scolastico snocciola un lungo discorso filosofico, poggiato per metà sugli anni del film e per l’altra sull’essere umano in generale: «E ora voi, uscendo da questo collegio come del resto avete studiato, vi troverete di fronte a due concezioni diverse: quella cattolica e quella marxista. È inutile fare misteri – aggiunge – la realtà europea è questa qui, divisa in due parti».
Chiusa la premessa storico/culturale, dopo aver spiegato che essendo gli studenti tutti «borghesi» in realtà hanno già «scelto», l’uomo inizia il suo discorso esplicativo del film, la sua “didascalia” verbale, partendo dal fatto che qualsiasi «posizione l’uomo assuma nella vita, essa deve essere prima di tutto una responsabilità morale. La storia degli uomini – continua – ciò che li ha portati fino a questo punto, è frutto di una scelta morale, di un impulso del cuore. La pura ragione, il razionalismo freddo, algebrico, matematico, non è la storia, perché la storia umana e un’ispirazione cosciente al bene. E’ un atto d’amore che abbraccia l’umanità. Questa è la vera educazione. Questa è la civiltà. Questo è il soffio dell’alto vento della cultura. Questa è la libertà», conclude. Stefano ascolta con sguardo fisso e attento queste parole, che probabilmente rafforzano il suo desiderio di entrare in seminario: un’idea, un sentire forse abbozzati, vaghi, forse contaminati dalla ricerca di pace e di una direzione esistenziale, di un equilibrio incompatibile con quello di entrambi i genitori, uno in fuga drammatica dalla vita e l’altro ben dentro, ma in atteggiamento di dominio assoluto verso il prossimo, senza quella bellezza e quei valori che per Stefano sono indispensabili. Una vocazione forse da sviluppare, da coltivare, quella del ragazzo, o forse parziale e troppo fragile.
Questo, almeno, secondo un altro insegnante del collegio, che Stefano stima e che va a salutare prima di partire. Egli esprime la sua perplessità, sperando di sbagliare, e il destinatario incassa, ricevendo subito dopo l’abbraccio razionale di quel padre modernamente, industrialmente padrone. Gli conferma la sua volontà di farsi prete, e questi, stupito, decisamente infastidito, forte della sua potenza, mette in campo tutti gli strumenti che possiede mentre ingaggia col figlio un sorridente duello per la sua dissuasione, combattuto con un week end in barca, con una passeggiata illustrativa sui suoi luoghi di lavoro (e potere), persino con la preparazione del terreno per l’incontro amoroso, sicuramente corporeo, tra Stefano e una donna avvenente e fascinosa: l’Adriana di Rosanna Schiaffino. Stefano resiste, cade, combatte. Vede il piccolo grande orrore della morale paterna nel suicidio tra virgolette di un suo dipendente: un giovane (proprio come Stefano) istigato dalla sua minaccia. Vede l’orribile nel piegarsi alla sua forza di altre persone di potere, intellettuali al suo soldo. Lo vede in un mondo, e nell’Italia che abita, dove «gli elettrodomestici contano più delle idee».
Stefano è l’incarnazione della premessa teorica del film, di una morale sana, pura, idealista, di uno stare al mondo per la costruzione del bene, da portare avanti con il cuore non matematico, freddo. La sua morale è estranea a entrambe quelle citate da suo padre, in una delle sue tante massime assertive, presuntuose e spavalde: «ce n’è una per chi comanda» e «una per chi obbedisce». Attraversiamo con il sofferente protagonista la sua piccola notte di fuoco, senza parole, solo con una musica assordante e disorientante che ne accompagna la crisi. Mentre altri giovani ballano tutti allo stesso modo, Stefano piange, si contorce. Non sappiamo se il mattino dopo si piegherà alla forza egoistica di suo padre e del mondo in cui nuota, se sarà cresciuta la sua vocazione in erba o se troverà una terza via in ogni caso portatrice di bellezza e libertà. Possiamo affermare, però, che La corruzione, distante dal primo all’ultimo frame dalla commedia all’italiana, sa raccontare senza didascalia il suo tempo, e senza rinunciare all’ambizione di superarlo in direzione universale.