Mettendosi dietro la macchina da presa della sua quinta regia cinematografica, Antonio Albanese si spoglia definitivamente dei guizzi comici e dei birignai da cabaret che lo hanno consacrato come comico debordante dallo stile vagamente surrealista. E sposa la cifra media della commedia satirica dolente che ha a lungo frequentato sui set dei film della coppia Milani-Cortellesi.
Dirige il suo film più sentito e personale, tanto è vero che decide di girarlo a Olginate e dintorni, ovvero la cittadina in provincia di Lecco (ieri di Como) in cui egli nacque da genitori provenienti dalla provincia di Palermo. Una regionalità che il regista\attore ha sempre deciso di convogliare nei suoi indimenticabili personaggi televisivi (e poi anche cinematografici) come Alex Drastico, Frengo, Epifanio e Cetto La Qualunque; e che qui però si fa mesto contesto provinciale, che funge da correlativo oggettivo di una crisi assiologica del mondo capitalista, che strangola i suoi cittadini con diaboliche speculazioni finanziarie talmente sovrastrutturate da lasciare sul campo tante vittime e nessun carnefice.
Siamo dalle stesse parti (non solo geografiche) de Il capitale umano, affresco apocalittico che Paolo Virzì trapiantò dalla Chicago di Stephen Amidon a un immaginario paesino lombardo che assomiglia moltissimo a quello in cui l’ex tornitore Antonio, pre-pensionato con incentivo all’esodo, consuma l’autunno della sua vita tra campionati di bocce, amori clandestini e un orto da coltivare. L’unico vero picco emotivo di questo lento e placido vivacchiare è dato dalla prospettiva di accompagnare la figlia Emiulia (Liliana Bottone) all’altare, finché sulla vita sua e dei suoi concittadini non si addensano le fosche nubi di una sospetta speculazione finanziaria della banca del paese, che, se si realizzasse, metterebbe quegli onesti risparmiatori in ginocchio.
Siamo insomma dalle parti della commedia satirico-politica che è tanto di Virzì, quanto della già citata coppia Milani-Cortellesi, i quali più di ogni altro si incaricano di raccogliere il testimone del cinema di Scola e Monicelli; e che qui si scaglia ferocemente contro la logica spersonalizzante delle multinazionali, gli opachi raggiri finanziari che non hanno padre, le scatole vuote dei fondi d’investimento e la rapacità fraudolenta di direttori di banca che scambiano obbligazioni per azioni contando sulla dabbenaggine dei loro clienti risparmiatori. Talché, come apparirà sin ovvio, la commedia lascia ineluttabilmente il passo al dramma col rischio sempre in agguato di sforare in tragedia.
Insomma, niente di nuovo sotto al sole. Cento domeniche s’innesta nella tradizione che si è descritta sopra, (che include, tra gli altri, titoli ormai lontani nel tempo come Sud di Gabriele Salvatores, Il posto dell’anima di Riccardo Milani o Gli ultimi saranno gli ultimi di Massimiliano Bruno – tanto per citare i primi film che vengono in mente), e che vorrebbe inverare l’antica locuzione latina: “castigat ridendo mores”; con la differenza ce qui “c’è poco da ridere”, come direbbe il buffo personaggio con problemi di strabismo di Bianco, rosso e Verdone.
No, i tempi sono grami, sembra dirci Albanese, che mette da parte il suo lato ridens per lasciare spazio soltanto a un accorato atto di dolore. Sceglie perciò la dimensione intima e privata, gira in luoghi per lui consueti, veste panni che gli sono familiari (come è noto, ha fatto a lungo l’operaio metalmeccanico) e si circonda di un cast di vecchi amici, quasi tutti fuoriclasse del teatro lombardo, come Bebo Storti, Maurizio Donadoni, Elio De Capitani e Giulia Lazzarini.

All’anteprima alla Festa del cinema di Roma si è applaudito Cento domeniche in modo convinto, commosso, indignato; tornano però in mente le urla del vecchio Cesare Zavattini che nell’ultimo film da lui scritto – il primo e l’unico da lui diretto – La veritaaaà (1982) si interrogava sull’efficacia di certe liturgie rivendicative. Il film di Albanese comunque è politicamente corretto, anche se cinematograficamente piuttosto piatto; resta da capire se utile, o addirittura necessario, come si ripete oggi sin troppo spesso. Il timore è che, mentre la cultura illuminata si bagna le palpebre al chiuso di sale cinematografiche tracimanti di indignazione, i padroni del mondo (per citare Noam Chomsky) continuino bellamente a fare i propri profitti esattamente come prima. Delocalizzando, precarizzando e impoverendo il pianeta.
Speriamo che opere come questa (o come la ancor più ficcante Palazzina Laf di Michele Riondino), ci aiutino a non “finire tutti in fondo a un fondo”, come si dice in una delle poche gag di un film disperato.
In anteprima alla Festa di Roma (sezione Grand Public)
In sala dal 23 novembre 2023
CREDITS & CAST
Cento domeniche – Regia: Antonio Albanese; soggetto: tratto dalla pièce omonima; sceneggiatura: Antonio Albanese, Piero Guerrera; fotografia: Roberto Forza; montaggio: Davide Miele; interpreti: Antonio Albanese, Liliana Bottone, Bebo Storti, Sandra Ceccarelli, Maurizio Donadoni, Elio De Capitani, Sandra Toffolatti, Martin Chishimba, Giulia Lazzarini; produzione: Rosamont con Rai Cinema; origine: Italia, 2023; durata: 94 minuti; distribuzione: Vision Distribution