Non c’è dubbio che la pandemia abbia provocato un rallentamento globale sul piano produttivo, ma il CoVid non è sufficiente a spiegare come mai una casa di distribuzione (nella fattispecie l’encomiabile Satine) abbia impiegato tre anni a pubblicare un film che si era visto per la prima volta in concorso a Berlino nel febbraio del 2018 (!!!), dove era parso fin da subito uno dei film più interessanti, salvo poi ricevere solo un Orso d’argento di consolazione, il riconoscimento speciale per il contributo tecnico, ma nessuno dei principali. In ogni caso, comunque, come si dice: meglio tardi che mai.
Il film di cui stiamo parlando s’intitola di Dovlatov – I libri invisibili ed è stato girato da Alexey German Jr. (il Jr. è dovuto al fatto che suo padre, importante regista sovietico si chiamava allo stesso modo, stesso nome e stesso cognome).
Si tratta di un film storico ma non l’ennesimo film sul Nazismo tedesco o sull’Inghilterra che ha salvato il mondo grazie al Primo Ministro allo scienziato geniale o al Re balbuziente, ma su un argomento, a nostra conoscenza, totalmente nuovo: il primo film che, dalla prospettiva di oggi, della Russia di Putin, presenta un affresco composito sull’ambiente degli scrittori sovietici dei primi anni Settanta, scrittori non tanto esplicitamente dissidenti, quanto piuttosto non allineati o semplicemente disinteressati alle prescrizioni del regime. Disinteressati al mandato realistico, educativo, positivo, ottimista a cui li costringevano le gerarchie politico-culturale dell’ Unione Sovietica.
Siamo nel 1971, tutto il film si svolge a Leningrado nell’arco di una settimana, la prima settimana di novembre, settimana di celebrazioni della Rivoluzione, settimana rigida, nevosa e ghiacciata. Pur essendo incentrato in larga misura sul protagonista, lo scrittore Sergei Dovlatov (1941-1990) – noto ma forse non celeberrimo scrittore sovietico (anche se Sellerio fra il 1991 e il 2016 ha pubblicato niente meno che 11 volumi nella collana “La Memoria”) – il film presenta una quantità impressionante di personaggi, fra cui molti artisti, musicisti e cantanti, ma soprattutto scrittori, avanti a tutti il più celebre, ossia Iosif Brodskji, che neanche un anno dopo avrebbe lasciato per sempre Leningrado e sedici anni dopo avrebbe ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura. Dovlatov e Brodskji moriranno entrambi esuli a New York, entrambi d’infarto, Dovlatov già nel 1990, Brodskji, che adesso è sepolto all’Isola di San Michele, morì sei anni dopo, nel 1996.
Nel 1971 quando si svolge il film Brodskji era già la star della bohème di Leningrado, ed era anche quello che già aveva avuto numerosi screzi con la nomenklatura politico-culturale, tanto appunto che di lì a poco fu praticamente costretto ad andarsene. Partendo da Dovlatov che disperatamente e inutilmente cerca di allinearsi, cerca di scrivere quello che gli chiedono pur di riuscire a pubblicare e basandosi su moltissimi dialoghi (che forse qua e là si sarebbe potuto accorciare) German Jr ricostruisce un ambiente in tutte le sue sfaccettature: gli incontri degli artisti, gli incontri-scontri con i vertici politici (l’associazione degli scrittori che non lo vuole fra i suoi membri, i dirigenti della fabbrica per il cui giornale prova a scrivere soprattutto nell’esilarante sequenza iniziale in cui si gira un film con operai e impiegati che interpretano i grandi scrittori russi del passato, un film che Dovlatov poi dovrebbe/avrebbe dovuto con toni laudativi recensire), i rapporti con il passato (in una bellissima sequenza ambientata nei sotterranei della metropolitana), i turbolenti rapporti familiari con la moglie e con la figlia che risentono del disagio complessivo, il rapporto con la città.
Tutte queste scene vengono raccontate – ed è un’altra ragione perché questo film merita assolutamente di essere visto – con un linguaggio cinematografico originale e rigoroso, con una splendida fotografia color seppia e una serie di notevolissimi e memorabili piani sequenza. Il film è una grande riflessione sul rapporto fra cultura e politica nell’epoca della restaurazione brezneviana, con un continuo nostalgico ma anche ironico riferimento a quando, agli albori dell’URSS, la rivoluzione politica si accompagnava alla rivoluzione culturale. Ora l’avanguardia è, purtroppo, rimasta solo nella sfera onirica, come dimostrano i meravigliosi sogni di Dovlatov (ora raccontati ora mostrati) nei quali, costantemente, si insinua il segretario generale del PCUS. Un ulteriore merito del film consiste nella capacità del regista di mantenere un costante equilibrio fra la sfera del tragico/malinconico e la sfera del comico, un’abilità che sembra davvero richiamare alla memoria la grande tradizione russa (Gogol, Puschkin ma anche Dostoevskji), cui, peraltro, fin dall’inizio il film fa riferimento. Il punto in cui invece il film è totalmente reticente (e lo fu anche a Berlino il regista in conferenza stampa, ancora lo ricordiamo) è il rapporto di quest’epoca con l’oggi. Non che sia necessario per forza quando si decide di concepire, scrivere dirigere un film storico riconnettersi al presente; ma un’indicazione, anche solo criptica, di come oggi gli intellettuali si relazionano a Putin ci sarebbe piaciuto averla. Ad esempio: anche loro, come Sergei Dovlatov con Breznev nel 1971, sognano Vladimir Vladimirovič di notte?
In sala dal 4 novembre.
Dovlatov – I libri invisibili – Regia:Alexey German Jr; sceneggiatura: Alexey German Jr, Tupikina fotografia: Łukasz Żal; montaggio: Sergey Ivanov, Darya Gladysheva; interpreti: Milan Marić (Sergei Dovlatov), Helena Sujecka (Elena Dovlatova), Artur Beschastny (Brodsky), produzione:SAGa, Mosca, Metrafilms, Mosca, Channel One, Mosca, Message Film, Varsavia, Art & Popcorn, Belgrado, Lenfilm, San Pietroburgo; origine: Russia-Polonia-Serbia 2018; durata: 126’; distribuzione: Satine Film.