Libri: Uomini fuori posto. Il cinema di Nico d’Alessandria di Natasha Ceci

«Sono nato/morto al cinema con Rebecca, la prima moglie (Alfred Hitchcock, 1940). Sono morto/rinato con il cinema-verità. Sono stato vicino al cinema sperimentale con Il canto d’amore di Alfred Prufrock (1967) e Carmelo Bene, e al cinema militante con Occupazione delle case a Decima (1973) e Zavattini nel bombardamento della cupola di San Pietro. Da morto, al cinema, ho cominciato a sognare di vivere in un film e tante volte la stessa sequenza finale. Per radio ho dato parola all’immagine della follia con “Processi Mentali”. Mi hanno costretto a essere imprenditore e ho soppresso il contabile. Ho pedinato la vecchiaia con Passaggi (1980). Ho visto camminare per Roma l’Imperatore. Ho fatto della mia vita un film, L’amico immaginario (1994). Ho incoronato la Gradisca con Regina Coeli (2000). La mia gaffe preferita è “questo cinema va distrutto!”»

Con queste parole, in una descrizione esemplare tra il poetico e l’allucinato, Nico D’Alessandria (1941-2003) ha riassunto una carriera breve ma intensa che oggi sono in pochi a ricordare. Eppure insieme a Claudio Caligari (1948 – 2015) che invece ormai tutti conoscono, il regista romano ha rappresentato la figura più eminente, insieme anche al più sperimentale Alberto Grifi (1938-2007), del cinema “indi” italiano soprattutto nella Capitale degli anni Ottanta e Novanta.

Ha fatto molto bene, dunque, la giornalista e critico Natasha Ceci a ricostruire la figura di un film maker tanto interessante quanto ingiustamente caduto nel dimenticatoio del tempo, in un agile volumetto Uomini fuori posto. Il cinema di Nico d’Alessandria, edito per i tipi di Digressione Editore.

E non era molto semplice dato la penuria di materiale che si può riscontrare intorno all’argomento e al personaggio, in una epoca come quella in cui aveva vissuto e operato dove la comunicazione, l’elaborazione artistica “indi” passava soprattutto di bocca in bocca e per strade poco arata dalla critica e dal giornalismo cinematografico ufficiale, se non come fatto di costume , a parte poche testate come ad esempio “Il Manifesto”.

Dopo aver concluso il “Centro Sperimentale di Cinematografia” di Roma nel 1967 con un bel saggio d’esame di diploma, Il canto d’amore di Alfred Prufrock, da una poesia di Eliot e la voce di Carmelo Bene, Nico D’Alessandria inizia a lavorare a cavallo tra l’industria (come aiuto regista, documentarista televisivo) ed esperienze di cinema militante. Profondamente interessato al tema della follia, realizza prima un programma radiofonico, Processi mentali  (1978, tra l’altro “proiettato” in sala su un schermo bianco”) e poi dieci anni dopo con quello che è stata la sua opera prima di lm L’imperatore di Roma (1988).

In un vivido bianco&nero e seguendo alla lontane le tracce del capolavoro di debutto di Pier Paolo Pasolini, Accattone (1961), si raccontano le giornate e le interminabili camminate di un tossicodipendente romano, Gerry, dedito appunto all’accattonaggio per sopravvivere. E insieme allo psicodramma di questo uomo solo e fuori di ogni schema, si fotografa  il volto di una città che vive all’ombra degli antichi fasti imperiali, tra bellezza eterna e decadenza estrema.

L’imperatore di Roma  ha avuto una lunga gestazione dato che D’Alessandria ha dovuto aspettare tre anni per avere il suo protagonista a disposizione, Gerardo Sperandini – a Gerry il regista ha scritto 48 lettere, ricevendone 171 di risposta, un carteggio prezioso che Natasha Ceci ha ben utilizzato nel suo libro. Finalmente si può partire con il film che così viene rievocato dallo stesso autore tramite la testimonianza di una amico e collaboratore Gaetano Gentile: «Lo girai muto, in 35mm, eravamo in tre, io, l’operatore Roberto Romei e Giuliana Mancini, lo sonorizzai dopo con le voci dei protagonisti, e lo montai personalmente. La pellicola era la più economica, la ORVO, che mi feci mandare dalla Germania Est. Con seimila metri feci il film. Quando iniziai, il protagonista Gerardo Sperandini era internato all’ospedale psichiatrico di Aversa, e mi fu affidato dal magistrato di sorveglianza [… ] Abbiamo vissuto insieme per trenta giorni, il periodo delle riprese, anche di notte perché era assolutamente rischioso lasciarlo da solo».

Purtroppo questo resterà il vero capolavoro del regista romano dato che i due suoi film successivi non ne riusciranno ad eguagliare la folgorante bellezza: forse in parte L’amico immaginario (1994), sicuramente di meno Regina Coeli (1999), il suo canto del cigno.

Dobbiamo dunque ringraziare l’autrice di questa monografia su Nico D’Alessandria per aver rievocato una stagione artistica spesso troppo dimenticata e negletta, tra il teatro “off” delle cantine, il cinema underground e indi, caratterizzato da attori come Victor Cavallo e Rossella Or o attori/personaggi come Jerry Sperandini o Mario “Stracci” Cipriani  o una caratteristica come Franca Scagnetti e tanti altri. Non solo dunque le imprese scellerate della Banda della Magliana ma anche un tessuto culturale prezioso e ricco di sorprese.


Natasha Ceci , Uomini fuori posto. Il cinema di Nico d’Alessandria, Digressione Editore,  Udine, 2021, 12€.

 

 

 

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